"Un duplicato del corpo in negativo"Una caratteristica costante di Vivian Maier, destinata a diventare una sorta di firma nei suoi autoritratti, fu la sua ombra. L'ombra, quella silhouette la cui caratteristica distintiva è l'attaccamento al corpo. Quel duplicato del corpo in negativo, ritagliato dalla realtà, ha l'abilità di rendere presente ciò che è assente. Sebbene l'ombra attesti l'esistenza di ciò a cui si riferisce, essa allo stesso tempo cancella la sua presenza. All'interno di questo dualismo, Vivian Maier si destreggiava con una versione di sé sul confine tra la sparizione e l'apparizione del suo doppio. "L'ombra è la forma più vicina alla realtà"Secondo Plinio il Vecchio, la pittura ebbe origine quando una fanciulla dipinse la silhouette del suo amato su una parete. Il grande scrittore romano descrisse l'episodio leggendario nella Naturalis Historia. Secondo il mito, la giovane figlia di un vasaio tratteggiò con una linea l'ombra del volto del suo innamorato proiettata sul muro dal lume di una lanterna. Su quelle linee il padre impresse l'argilla riproducendone il volto e dando vita al primo ritratto nella storia dell'arte. Vivian Maier adottò questa tecnica utilizzando la proiezione della propria silhouette. Si tratta probabilmente della più sintomatica e riconoscibile tra tutte le tipologie di ricerca formale da lei utilizzate. L’ombra è la forma più vicina alla realtà, è una copia simultanea. È il primo livello di una autorappresentazione, dal momento che impone una presenza senza rivelare nulla di ciò che rappresenta. "Il segno della sua intrusione nella privacy del soggetto"Molti scatti di Vivian Maier sono ravvicinati. Tale prossimità le consentiva una rappresentazione molto intima dei suoi soggetti. Si palesa così una componente essenziale del suo atteggiamento: la faccia tosta, attitudine che le dava la possibilità di fotografare le sue figure spesso in situazioni private. Uomini e donne addormentati sulle panchine, persone rilassate su manti erbosi, semplici passanti più o meno famosi, sono alcuni esempi di soggetti amati da Vivian Maier. Questa passione non fa che avvicinare il suo stile a quello dei grandi fotografi francesi della strada. Vivian non soltanto coglieva l’attimo in composizioni divertenti, ma si muoveva ai margini della composizione, passando spesso inosservata. L’ombra dell’artista, nella parte bassa della composizione, è il segno della sua intrusione nella privacy del soggetto. La chiara immagine della fotografa che si intromette ed instaura un rapporto con la donna stesa a prendere il sole (probabilmente del tutto inconsapevole di essere vista). Visita la mostra a Palazzo SarcinelliHai tempo fino al 11 giugno 2023.
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"Una bambinaia, una governante, una fotografa"Chi era Vivian Maier? Una bambinaia, una governante, una fotografa. Della sua personalità è assai difficile fornire un’immagine coerente. Il suo carattere e la sua vita sono stati raccontati solo sulla base del modo in cui si è autoritratta. Maier nacque da madre francese e padre austriaco nel quartiere del Bronx di New York. All'età di quattro anni viveva con la madre assieme a Jeanne Bertrand, una pluripremiata fotografa ritrattista, mentre suo padre aveva già abbandonato il nucleo familiare. La ritrattistica da studio della giovane Jeanne Bertrand era del tutto simile all’estetica di Julia Margaret Cameron, tra le prime fotografe donne nella seconda metà dell’Ottocento. Nel 1932 Marie, la madre di Vivian, non riusciva a trovare lavoro in America e fu perciò costretta a ritornare in patria. La nonna Eugénie pagò loro il viaggio da New York alla valle Champsaur in Francia. Vivian Maier parlava solo inglese e fu costretta a confrontarsi con i contadini francesi a soli sei anni. Nel 1933 Marie si fece ritrarre assieme alla figlia. È una delle primissime immagini note di Vivian Maier. Sedute di fronte ad una fattoria, le due protagonisti dello scatto non sorridono. La posa e l’espressione comunicano una sensazione di imbarazzo. Nel 1938 Marie Maier si preparava a tornare negli States. Vivian aveva dodici anni. Il transatlantico SS Normandie le fece sbarcare a New York. L’adolescenza di Vivian Maier coincise con la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1945 aveva ormai compiuto vent’anni. Già dal 1943 la sua vita si svolgeva separatamente dalla madre. Vivian abitava nel Queens presso una coppia sposata che accoglieva bambini in affido: i Lindenberger, amici di nonna Eugénie. Negli stessi anni lavorava presso una fabbrica di bambole, posto che prefigurava la sua futura professione di bambinaia. Nel 1950 fece un lungo viaggio in Francia per rivendicare (e vendere) le proprietà di famiglia che le erano state date in eredità. Durante il suo viaggio nel Vecchio Mondo l'artista realizzò le sue prime fotografie, circa tremila immagini. "L'elegante viaggiatrice era divenuta una babysitter vestita da casalinga"Nell’estate del 1951 Vivian viveva a Southampton, Long Island, in un ambiente benestante. Iniziava la sua carriera di tata e governante. La trasformazione si era compiuta: l’elegante viaggiatrice era divenuta una babysitter vestita da casalinga. Alla fine dell’estate Vivian andò a Manhattan. I suoi scatti sono ravvicinati e questo le consentiva una rappresentazione molto intima dei suoi soggetti. Emerse allora la sfacciataggine di Vivian Maier, capace di fotografare le sue figure spesso in situazioni private, correndo perciò anche qualche rischio. Nel 1952 Vivian Maier aveva un nuovo lavoro di bambinaia a Manhattan. Da questo momento le strade di New York diventarono le sue strade. La nuova base era l’Upper West Side. L’appartamento in cui viveva, elegantemente arredato, si affacciava su Riverside Park lungo la 106ª Strada. In questo periodo si dotò della sua prima Rolleiflex e acquistò un flash. Fu uno straordinario periodo di crescita artistica, favorito da un lavoro (quello di bambinaia) che le dava l’opportunità di peregrinare in giro per la città. Nel 1956 lasciò la costa orientale per Chicago, dove avrebbe trascorso la maggior parte del resto della sua vita lavorando sempre come tata e governante. Origini francesi, vita da newyorchese. Maier non rinnegò mai le sue origini, annotando spesso descrizioni in francese sulle sue stampe e sui suoi taccuini e dichiarò sempre ai suoi conoscenti la passione per la Grande Mela. La fotografa realizzò le sue opere senza sosta dai primi anni ’50 a New York fino almeno agli anni ’90 a Chicago. "Un tesoro destinato a divenire inestimabile"Il 25 novembre 2008 Vivian Maier si alzò dalla sua panchina preferita sul lago Michigan nei pressi di Chicago e cadde. Venne trasportata in ospedale, sebbene fosse riluttante, e lì trascorse gli ultimi cinque mesi di vita. In questo breve lasso di tempo il riconoscimento dell’importanza delle sue foto conobbe un’accelerazione. John Maloof, il suo scopritore, aveva iniziato a pubblicare le sue immagini e la richiesta delle stampe aumentava senza sosta.
Vivian Maier morì il 21 aprile del 2009, quando un nutrito gruppo di appassionati di fotografia iniziava già ad esaltare la sua opera su blog e forum online. Vivian Maier è stata ricordata da chi la conobbe come una donna sola, sostenuta da una trascinante passione per l’arte fotografica. Grazie a questo suo grande amore, consegnò alla storia una mole impressionante di opere. Tuttavia, non realizzò mai una mostra d’arte mentre era in vita. Le sue opere iniziarono a divenire di dominio pubblico solo a partire dal 2007. Un tesoro destinato a divenire inestimabile: più di centomila negativi, migliaia di fotografie stampate in ogni formato, scatole Kodak con centinaia di diapositive e pellicole cinematografiche; oltre che più di mille rullini non ancora sviluppati. Da questo momento la storia cambiò il proprio corso. L’anonima bambinaia di Chicago era pronta per diventare Vivian Maier, autorevole rappresentante della street photography. "Il confine tra pubblico e privato si annulla"Nel 1978, all’età di 28 anni, Steve McCurry lascia la posizione di fotografo presso un giornale provinciale di Filadelfia per dar vita ad uno dei suoi più grandi sogni: visitare l’India. Il fotografo acquista duecento rullini e lascia gli Stati Uniti. L’inizio non è dei più esaltanti e, come ci racconta lui stesso, a sole due settimane dall’arrivo, “in un posto chiamato Kodaikanal, nel Sud, mi presi l’amebiasi e inoltre dovetti sottopormi a una serie di iniezioni antirabiche, dopo essere entrato in contatto con un cane idrofobo”. Di questo primo viaggio poco rimane poiché le imprese maggiori di fine anni ’70 si concentrano nella documentazione di Afghanistan e Pakistan. Nel 1983 torna però nel subcontinente con lo scopo di documentare il monumentale sistema ferroviario dell’Asia meridionale. Ne deriva un resoconto preciso ed emozionante della vita quotidiana in India, dove la maggior parte delle attività avviene in pubblico: come mangiare, dormire e lavarsi. La serie di immagini è un grande ritratto di questa complessa società in cui il confine tra pubblico e privato si annulla, un paese in cui “i poveri, ma anche quelli che se la cavano un po’ meglio, tendono a vivere in strada”, sottolinea McCurry. Il suo racconto per immagini dell’India non è però puramente romantico, poiché non trascura di parlarci dei profondi contrasti e delle iniquità che ancor oggi costellano quel mondo lontano. Nel tempo l’India è diventata una delle nazioni più frequentate da McCurry, protagonista di preziose serie documentarie pubblicate da prestigiose riviste internazionali. "Lo sguardo esprime appieno lo spirito della sua gente"L’immagine qui pubblicata, scattata nel 2009, rappresenta una bellissima bambina nomade incontrata dal fotografo in Rajasthan, nell’India del Nord, dove egli svolgeva un prezioso lavoro di documentazione delle popolazioni nomadi.
L’etnia di appartenenza è Rabhari, nomadi principalmente dediti alla pastorizia. Essi viaggiano incessantemente alla ricerca di cibo per i loro animali. McCurry ci racconta di come i Rabhari saranno presto costretti a trasferirsi presso i centri urbani, finendo così per perdere la propria affascinante alterità. Il Rajasthan si sta trasformando in un territorio inospitale per i nomadi sia a causa del cambiamento climatico che a seguito della massiccia opera di edificazione e industrializzazione. La piccola protagonista si chiama Shakti e sembra accoglierci nella sua piccola casa-tenda. Lo sguardo esprime appieno lo spirito della sua gente, orgogliosa e indipendente. Le qualità pittoriche di questa immagine sono impressionanti, sia dal punto di vista della luce che della composizione, ma lo è altrettanto il senso di empatia e di comprensione che il fotografo riesce a suscitare nello spettatore di questa scena così toccante. Riprendendo le parole di Anthony Bannon, direttore della George Eastman House di New York, si può dire che “l’immagine in oggetto è perfettamente in linea con i suoi obiettivi artistici: rappresentare, attraverso le vite degli altri, questioni di portata universale, che ci parlino della condizione umana”. Articolo a cura di Daniel Buso Per info sulla mostra in corso a Pisa, clicca il link qui in basso "Le feste roboanti nella discoteca più famosa d'America"Tra il 1977 e il 1981, Allan Tannenbaum realizzò una serie di 36 fotografie dedicate al memorabile Studio 54. Gente comune, semplici curiosi, giornalisti, travestiti e, ovviamente, le star del momento affollano i suoi scatti delle feste roboanti nella discoteca più famosa d’America. Mick Jagger, Liz Taylor e l’onnipresente Andy Warhol, che per tutta la sua carriera artistica non mancò mai di presenziare ai party più in voga nella metropoli statunitense. Andy Warhol fu il protagonista assoluto della cultura Pop, ambito in cui trovò un posto di primo piano proprio l’iconico Studio 54. La struttura aprì nel 1977 e divenne il club più famoso della storia, la prima grande discoteca che sarebbe stata imitata in tutto il mondo in migliaia di cloni mai così ben riusciti. Caratteristiche principali del club erano le provocazioni e la stravaganza delle serate proposte. L'intento dei proprietari era infatti quello di dare vita ogni sera alla “festa più grande del mondo”, nonché quello di scuotere il pensiero dei benpensanti a Manhattan. Nel locale si trovavano sempre musica ad altissimo volume, scenografie allusive e serate che ogni sabato prevedevano sorprese o stravaganze inedite. Lo Studio 54 si distinse fin da subito come un luogo in cui ciascuno poteva essere protagonista a prescindere dal ceto di appartenenza, trovandosi fianco a fianco ad esponenti del jet set internazionale. La giornalista Marjorie Daphnis, che riuscì ad entrare nella discoteca nel 1979, raccontò che all'interno del club era permesso ogni tipo di eccesso. Lo Studio 54 fu tra le prime discoteche a adottare una selezione sistematica all'ingresso, nota per essere straordinariamente rigida e soggettiva, in base all'aspetto estetico e al gusto nel vestire. Andy Warhol imputò lo strepitoso successo del locale al suo essere “una dittatura all'ingresso e una democrazia sulla pista da ballo”. Il club chiuse i battenti nel 1986, Warhol morirà pochi mesi dopo. Con la loro fine si avviò così al tramonto una stagione culturale indimenticabile. Nel 1977 gli Stati Uniti stavano facendo pace con i figli dei fiori, il presidente Carter aveva deciso di perdonare i disertori della guerra del Vietnam, l’Urss e gli Usa erano concentrati nella conquista dello spazio e nella Grande Mela veniva inaugurato lo Studio 54, il 26 aprile.
Pochi giorni dopo, precisamente il 2 maggio, si tenne già il primo dei tanti party destinati a passare alla storia. Fuori dal locale c’era la solita folla che sperava di entrare nel tempio della musica dance. Ma quella sera, nelle prime ore, all’interno del locale ebbero il permesso di entrare solo 20 selezionatissime persone per festeggiare il compleanno di Bianca Pérez-Mora Macìas, la moglie di Mick Jagger dei Rolling Stones. A organizzare la festa ci pensò lo stilista Halston, il couturier più chic d’America. Bianca compiva 30 anni e al mixer prese posto l’esordiente Nick Siano, considerato il padre indiscusso di tutti i deejay. Lui stesso ricorda il particolare inizio di serata in cui fu chiamato ad intrattenere 20 persone in un locale che ne poteva contenere quasi 3000. Nella foto di Allan Tannenbaum, oltre a Halston e a Bianca vediamo il produttore Jack Haley, Liza Minelli e Andy Warhol. Nel mezzo dei festeggiamenti accadde qualcosa destinato a rimanere memorabile: la festeggiata apparve dal nulla in groppa a un cavallo bianco accompagnata da un nugolo di fotografi. Una delle immagini più iconiche dell’era della disco. "Tra il 1969 e il 1971 sostanzialmente smise di dipingere."Dopo il tentato omicidio di Valerie Solanas, Andy Warhol continuò a dedicarsi con grande impegno al cinema con Paul Morissey e produsse Blue Movie, pellicola semi-pornografica pensata per fare soldi in modo rapido. Nel 1969 produsse una stagione di film gay hardcore in un cinema di Manhattan affittato allo scopo. Tra il 1969 e il 1971 sostanzialmente smise di dipingere. Disse infatti a Emile De Antonio: “Sono i critici i veri artisti; anche i mercanti sono i veri artisti. Non dipingerò più. La pittura è morta”. Nel 1969 fondò una rivista di cinema underground, Andy Warhol’s Interview e produsse Trash, il suo film di maggior successo commerciale. Nel 1970 fu inaugurata un’imponente retrospettiva dei suoi dipinti a Pasadena in California. Quindi la mostra si spostò a Chicago, Eindhoven, Parigi, Londra e New York. Tra il ’71 e il ’72 l’artista tornò alle arti visive creando più di 200 dipinti rappresentanti Mao. Capolavoro ironico, volto a glorificare con mezzi occidentali la figura storica che incarnava l’antitesi del modello americano. Warhol interpretò pienamente la sensibilità edonistica e il narcisismo sociale dei ricchi newyorkesi. Egli frequentava lo Studio 54, la discoteca del bel mondo; intratteneva rapporti stretti con le stelle della musica pop, come Mick Jagger; corteggiava la Casa Bianca e si intratteneva con re e dittatori come lo scia di Persia e il presidente Marcos delle Filippine. Il denaro entrava a fiumi nelle casse dell’artista, alimentando il suo dispendioso stile di vita mondano e internazionale. Cominciò così a dipingere su commissione una quantità industriale di ritratti di persone ricche e famose. Alla metà degli anni ’70 i ritratti gli garantivano un’entrata superiore al milione di dollari l’anno. Nel 1975 lavorò ad una serie di ritratti a stampa di Mick Jagger e alla serie Ladies and Gentlemen con stampe di travestiti, entrambi di scarso interesse artistico. Nel ’76 produsse Bad, il suo ultimo film. Le opere più importanti di quest’anno furono Hammer and Sickle e Skulls. Rappresentando la falce e il martello, Warhol ribadisce con ridondanza l’ironia politica sottesa alla rappresentazione del Presidente Mao. I teschi, invece, lo ricollegano alla lunga tradizione dell’arte occidentale del memento mori. Nel 1977 produsse la serie degli atleti; uno spudorato tentativo di fare rapidamente soldi dopo l’insuccesso del suo ultimo film. La serie comprendeva i ritratti di personaggi celebri dello sporto come Muhammad Ali, Pelé, Jack Nicklaus e Chris Evert. American Indian, altra opera del ’77, è invece il ritratto di Russel Means che negli anni ’70 si batteva per il riconoscimento dei diritti civili per gli Indiani d’America. Nel 1979 produsse un proprio programma televisivo via cavo, Andy Warhol’s TV, che, nonostante andasse in onda ogni settimana, da un punto di vista commerciale fu un fallimento. Pochi furono veramente interessati all’approccio narcisistico e di autocompiacimento che Warhol adottò nella sua relazione col mezzo televisivo. Gli anni ’80 iniziarono con una serie di quadri dal titolo Ten Portraits of Jews of the Twentieth Century, con Freud, Einstein, Gershwin, Martin Buber e i fratelli Marx; rappresentati nello stile delle copertine di dischi. Nel 1981 rappresentò coltelli e pistole per alludere all’esaltazione americana della violenza. Mentre i Myths specificavano l’importanza, nella società statunitense, di figure mitiche come Superman e lo Zio Sam. Il 1984 segnò un periodo di collaborazione con due astri nascenti della scena artistica newyorkese: Francesco Clemente e Jean-Michel Basquiat. I due artisti trovarono una loro dimensione creativa, rispettivamente nella rivisitazione postmoderna dell’immaginario infantile e del fenomeno del graffitismo. Le collaborazione con Warhol, però, non produssero che accozzaglie di produzioni, spesso prive di idee convincenti. Nel 1986 Warhol continuò a produrre immagini, anche se non più sostenuto da un’ispirazione autentica. Sono di questo periodo le rappresentazioni di Lenin e Federico il Grande. Unica eccezione in termini di creatività innovativa è Last Supper, in cui l’artista ragiona su come la grande arte religiosa del passato si potesse trasformare in kitsch culturale. "Warhol era divenuto una delle più importanti personalità del suo tempo."Il 20 febbraio 1987, Warhol fu ricoverato al New York Hospital per un intervento di routine alla cistifellea. Nonostante l’operazione fosse riuscita, le cure postoperatorie non furono adeguate e nelle prime ore della mattina di domenica 22 febbraio 1987 il pittore morì. Aveva appena 59 anni. Il suo corpo fu traslato a Pittsburgh e venne sepolto il 26 febbraio. Nel testamento nominò Fred Hughes suo esecutore. A lui lasciò 250 mila dollari e le stessa cifra fu ereditata da ciascuno dei suoi due fratelli. Il resto dei suoi beni, fra i 75 e i 100 milioni di dollari, fu devoluto alla istituzione della Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, oggi una delle più ricche organizzazioni benefiche negli Stati Uniti.
Negli ultimi anni di vita, Warhol era divenuto una delle più importanti personalità del suo tempo. Icona indiscussa del glamour newyorkese e della superficialità dei costumi contemporanei. Il suo periodo d’oro si concentra tra il 1961 e il 1966, successivamente non gli rimase molto da aggiungere e la sua produzione divenne stanca. Nel 1968 egli stesso si accorse di aver perso ogni stimolo creativo. Il nichilismo e la superficialità dei suoi ultimi anni sono l'estremo riflesso di questa consapevolezza. Warhol, a dispetto del suo cinismo e del suo non prendersi sul serio, non fu solo un artista pop; la sua arte non si limita infatti a ridicolizzare la società dei consumi e la cultura di massa. Warhol volle porci di fronte ad alcune verità, come la disumanità, lo sfruttamento, la banalità, la volgarizzazione e distruttività della cultura moderna. Egli voleva apparire come una macchina, apparentemente privo di profondità, caratterizzato da un vacuo intellettualismo e sospinto solo dal desiderio di essere famoso e di guadagnare molti soldi. "Come una lattina di minestra Campbell."L'architetto Muriel Latow diede quasi inconsapevolmente un consiglio fondamentale a Andy. Gli suggerì, dopo essersi fatta dare 50 dollari, di dipingere ciò che la gente desiderava di più (“i soldi”) e ciò che conosceva meglio (“come una lattina di minestra Campbell”). Così Warhol trovò l’idea dei suoi dipinti Money e Soup. Anche se l’idea non fu sua, l’artista ebbe il merito di ricavarne un fondamentale potenziale estetico e culturale. Del resto lo stesso Warhol diceva: “Che cosa dovrei dipingere? Il Pop viene dall’esterno, e che differenza c’è tra chiedere a qualcuno delle idee e cercarle in una rivista?”. Gli anni 1961 e 1962 furono dedicati all’esplorazione del soggetto “dollari”. Parallelamente sviluppò il tema della minestre Campbell, impegnandosi nella produzione di una serie di 32 piccole tele corrispondenti alle 32 varietà di minestra. Le immagini si stagliano su di un fondo neutro, il che implica distacco emotivo. Warhol riproduce l’aspetto meccanico delle immagini, proponendo in ambito artistico i processi industriali all’origine della produzione degli oggetti rappresentati. Attraverso l’industria Warhol crea una potente metafora del distacco dalle emozioni che caratterizza l’individuo nella società meccanizzata. Warhol si sofferma spesso a sottolineare la ripetitività e il conformismo sottesi alla vita moderna, con la sua consueta ambiguità. “Penso che ciascuno di noi dovrebbe essere una macchina”. Da quel momento Warhol prese la macchina a modello del proprio personaggio pubblico. Egli perpetrò una sempre più convincente fusione tra arte e vita. Tant’è che nel 1963 dichiarò a un giornalista della rivista Time: “Dipingere è troppo faticoso. Le cose che voglio rappresentare sono meccaniche. Le macchine hanno meno problemi. Io vorrei essere una macchina, e lei?”. La posizione dell’artista si radicalizzò fin dai primi anni ’60, dal momento che Warhol cominciò a fingere assenza di impegno intellettuale ed emotivo alla stregua di un robot. Tale assimilazione macchinica suscitò un tremendo interesse da parte dei media. Più Warhol appariva disimpegnato, più diventava intrigante. Quando Henry Geldzahler (assistente-curatore del Metropolitan Museum of Art) visitò il suo studio, rimase impressionato dal fatto che, durante tutta la sua permanenza, Warhol impose ai presenti di ascoltare decine di volte lo stesso disco di Dickie Lee ad alto volume. Questa ostentazione di automatismo è senza dubbio la chiave d’accesso alla comprensione della sua poetica. Nel 1962 Warhol produsse grandi dipinti con lattine di minestra, bottiglie di Coca Cola, di francobolli, di etichette e di adesivi con la scritta “Vetro – maneggiare con cura”. Nello stesso anno passò a rappresentare la morte! Una copia del Daily News con il titolo 129 DIE IN JET! gli fornì l’ispirazione. Vide la luce così il primo dei suoi numerosi quadri di incidenti. "L'attenzione del pubblico non lo abbandonò più fino alla fine della sua carriera."Una cosa va sottolineata, fino alla prima metà del 1962 Warhol dipingeva. Realizzando opere con le mani egli attribuiva invariabilmente una qualità soggettiva alle opere. La differenza tra immagini eseguite a mano e immagini prodotte a macchina venne definitivamente annullata nel luglio del 1962 quando Nathan Gluck disse a Warhol che, se voleva eliminare la laboriosità dalla produzione di immagini ripetitive, avrebbe dovuto usare la tecnica di stampa della foto-serigrafia. L’immagine fotografica veniva tecnicamente trasferita su uno schermo di seta sensibilizzata teso su un telaio. Quantità e ripetitività diventano così gli elementi essenziali della sua arte che ambisce a riprodurre l’effetto “catena di montaggio” agognato dall’artista. Le sue immagini divengono così meccaniche, sebbene Warhol insista sulle varianti al fine di vitalizzare il suo procedimento. È il decesso dell’autorialità, il trionfo dell’oggettivizzazione del processo creativo, seppure in un contesto in cui la forza cromatica e l’intensità degli inchiostri conferisca grande varietà visiva, movimento e immediatezza. Il 4 agosto 1962, la grande star Marilyn Monroe pose fine alla sua vita in maniera tragica. L’artista si lanciò sullo scoop del momento, producendo una serie di serigrafie che ritraevano l’attrice; presto queste sarebbero diventate le sue immagini più celebri. Le immagini ritraggono Marilyn seguendo un processo che mira ad enfatizzare gli aspetti più pacchiani del divismo: rossetto acceso, capelli ossigenati, uso smodato dell’ombretto. Dopo la Monroe, numerose altre star della musica e del cinema diventarono protagoniste delle sue nuove serie: Liz Taylor, Marlon Brando, Elvis Preseley. Nella stessa estate 1962 la Elinor Ward’s Stable Gallery di New York lo contattò per realizzare una sua mostra personale. Il 6 novembre 1962 è il giorno del debutto newyorkese di Andy. 18 quadri, tutti venduti. L’attenzione di pubblico che ricevette questa mostra non abbandonò più Warhol lungo tutto il corso della sua carriera. Nel 1963 il Metropolitan espose per un mese la Monna Lisa di Leonardo da Vinci e, per l’occasione, Warhol dipinse alcuni quadri in cui era inserita quella immagine. L’operazione warholiana mirava a rappresentare l’immensa diffusione mediatica del capolavoro. Parallelamente rappresentò eventi sociali contemporanei, come le manifestazioni per i diritti civili dei neri a Birmingham in Alabama, funerali di gangster, sedie elettriche, morti causate da avvelenamento alimentare, incidenti stradali, esplosioni atomiche. Quindi si dedicò a rappresentare un altro evento di grande impatto mediato: i funerali di Kennedy. Protagonista fu Jackie, immortalata ai funerali presidenziali. Nei disastri rappresentati da Warhol, la ripetitività visiva sottolinea il significato culturale del modo in cui noi spettatori vediamo le immagini tragiche diffuse dai media. La sensazione che tali immagini producono su di noi è di intrigante curiosità. "I suoi dipinti iniziarono ad essere considerati tra le immagini più significative della contemporaneità."Nel 1963 ci fu un momento epocale nella carriera di Warhol, ovvero il trasferimento del suo studio nella celebre The Factory (La Fabbrica), così chiamato poiché ospitava in precedenza una fabbrica di cappelli. Billy Name, un suo assistente, dipinse gli interni con vernice color argento e lo tappezzò in parte con fogli d’alluminio. A Warhol piacque l’effetto poiché gli ricordava le navi spaziali e gli schermi dei vecchi film di Hollywood. Nello stesso anno l’artista assunse un prolifico assistente, Gerald Malanga, al fine di occuparsi con maggior impegno del cinema.
Già nel 1963 girò il suo primo film, Sleep. 6 lunghe ore in cui il suo compagno, John Giorno, dormiva. Altro lavoro cinematografico del periodo fu Empire: ripresa dell’esterno del celebre Empire State Building per 8 ore. Scopo di queste opere d’avanguardia è proiettare sul mondo uno sguardo meccanico, deprivato di ogni emozione e dell’intervento visibile dell’autore. In tal proposito l’artista suggerì: “Quando non accade nulla, si ha la possibilità di pensare a qualsiasi cosa”. Nel 1964 gli venne conferito il premio annuale della rivista newyorkese di cinema underground Film Culture. Nel frattempo Warhol sbarcò in Europa e i suoi Disasters ottennero un grande successo a Parigi. La prima mostra europea di Warhol si tenne alla Ileana Sonnabend Gallery nella capitale francese. Protagonisti un gruppo di Disasters con il titolo di Death in America. La personalità di Warhol lo portava incessantemente a cercare di stupire il suo pubblico. Tant’è che alla mostra presso la Leo Castelli Gallery di New York, nel 1964, non espose più i disastri ma, su suggerimento di Henry Geldzahler, fiori. Negli anni ’60 il mondo (e il mercato) dell’arte letteralmente esplose. La Factory si riempì di aiutanti e scrocconi. Molti soffrivano di disturbi psicologici, talvolta legati all’assunzione di droghe, ma Warhol accoglieva senza alcun problema disadattati sociali, anche perché facilmente disposti a essere manipolati dalla sua leadership. In questo periodo sviluppa un’ossessione per le feste private. Warhol non era felice se non aveva un party a cui recarsi ogni sera. Con il tempo avrebbe dato una struttura più solida a questo suo amore, grazie alla rivista Interview da lui fondata, che gli offrì l’accesso a qualsiasi party negli USA. Warhol cercò nuove ispirazioni in altre forme di espressione culturale. Nel 1965 assunse il controllo del gruppo rock Velvet Underground. Tornato a New York girò il suo primo film di successo commerciale, Chelsea Girls. Nel 1967 la sua attività artistica era in declino e, ancora una volta, ciò lo spinse a cercare aiuto all’esterno. Ivan Karp gli suggerì di rappresentare se stesso. Ne derivò un gruppo di autoritratti che dimostravano come, nel 1967, l’artista fosse divenuto un’icona. La foto scelta era di molti anni prima. Le mostre dei suoi lavori si moltiplicarono. I suoi dipinti iniziarono ad essere considerati tra le immagini più significative della contemporaneità. Il Moderna Museet di Stoccolma gli dedicò una retrospettiva e per l’occasione avvolse l’intero museo di carta da parati rappresentante la celebre mucca. Il ritorno a New York lo vide impegnato in un’attività sempre più frenetica nella sua Factory. La presenza di persone squilibrate continuava ad essere la normalità nello studio newyorkese, tanto che nel 1964 Dorothy Podber (uno dei parassiti della Factory) sparò a quattro tele di Marilyn impilate l’una sull’altra (i quattro quadri da quel momento presero il titolo di Shot Marilyn). Il 3 giugno del 1964, Valerie Solanas, un’attrice affetta da disturbi mentali, femminista e fondatrice della Society for Cutting Up Men (SCUM – Società per fare a pezzi gli uomini) di cui era il solo membro, entrò nello studio di Warhol e sparò tre colpi contro il pittore. Warhol venne immediatamente trasferito all’ospedale e sottoposto a un intervento chirurgico. L’operazione fortunatamente andò a buon fine. "Andy approfondì il suo rapporto intenso con la madre che manterrà per tutta la sua vita."Andy Warhol, nome d’arte di Andrew Warhola, nacque il 6 ottobre 1928 a Pittsburgh, Pennsylvania, terzo figlio di Ondrej e Julia Warhola. I genitori erano entrambi emigrati negli Stati Uniti da un piccolo paese della regione di Presov in Slovacchia. Il padre, trasferitosi in America nel 1907, era successivamente rientrato in patria dove si era sposato con Julia. Pittsburgh era ed è una delle città industriali più sviluppate degli Stati Uniti. Ciononostante la Depressione aveva intaccato l’economia locale poco dopo la nascita dell’artista. Il padre dovette confrontarsi con la disoccupazione che interessò migliaia di lavoratori. Ondrej riuscì comunque a cavarsela e, grazie alla sua intraprendenza, garantì sempre una certa agiatezza alla sua famiglia. Nel 1934, il miglioramento significativo della situazione familiare, spinse il nucleo a trasferirsi in una zona di maggior prestigio (sempre a Pittsburgh). Andy si iscrisse alla Holmes Elementary School e sviluppò, invero precocemente, il suo talento artistico. Nel 1936 Warhol si ammalò di febbri reumatiche e sviluppò un, seppur lieve, attacco di corea. Tale malattia interferì per un lungo periodo sul suo andamento scolastico. Nel ’41 entrò nella Schenley High School della sua città. Nel frattempo il padre sviluppò una grave malattia che lo condusse rapidamente alla morte, sopraggiunta nel 1942. Il fratello minore John assunse il ruolo di capofamiglia, mentre Andy approfondì il suo rapporto intenso con la madre che manterrà per tutta la sua vita. "Un bisogno di approvazione che soffocò l’espressione di una sua particolare visione del mondo."Andy si diplomò nel 1945 ed entrò nel Carnegie Institute di Pittsburgh, dove si laureò in disegno pittorico. La sua timidezza, in questa fase, lo spingeva a realizzare opere solamente in funzione del giudizio degli insegnanti. Un bisogno di approvazione che soffocò l’espressione di una sua particolare visione del mondo. Un anno rischiò l’espulsione dall’istituto, cosa che determinò il persistente timore d’insuccesso che accompagnò Warhol fino alla fine della sua carriera. Al Carnegie subì alcune influenze autorevoli. Ad esempio il Bauhaus tedesco. Moholy-Nagy sosteneva la creazione di opere d’arte realizzate con mezzi meccanici e con assoluto distacco emotivo. Facile immaginare come tali dettami abbiano permeato tutta la poetica del nostro artista. Negli anni ’40 Warhol entrò in contatto con la produzione di artisti fondamentali della storia del ‘900, come Duchamp e Salvador Dalì. Del primo, di cui diventò collezionista, avrebbe ripercorso per certi versi la carriera, configurandosi come suo degno successore sia nelle scelte culturali che nell’iconoclastia artistica. Warhol perpetrò una politica artistica di ridicolizzazione delle pretenziosità e di rifiuto nell’adeguarsi alle aspettative della società culturale. Nell’anno 1949 l’artista concluse il suo percorso di studi, laureandosi in Belle Arti. Già nello stesso anno si trasferì a New York con il compagno di studi Philip Pearlstein. "Andy sviluppa il suo primo personaggio pubblico: raggedy Andy (Andy lo straccione)."L’anno precedente, durante una breve permanenza a New York, Andy aveva conosciuto Tina Fredericks, direttrice della rivista di moda Glamour, che prontamente cercò per essere assunto. Tina gli commissionò una serie di illustrazioni di scarpe, tema che sarebbe diventato una delle specialità dell’artista. Le illustrazioni portavano la firma “Warhol”, Andy aveva definitivamente rinunciato alla “a” finale, anglofonizzando il suo cognome. Allo scopo di avere nuove commissioni, Andy sviluppa il suo primo personaggio pubblico: raggedy Andy (Andy lo straccione). Lo scopo consiste nel apparire come uno scappato di casa e perciò suscitare compassione nei clienti. L’originalità e la brillantezza delle sue illustrazione gli valgono alcune commissioni di successo per Condé Nast (il marchio cui apparteneva Glamour) e altri prestigiosi brand. Dal 1950 la sua carriera conobbe una costante ascesa e, nel ’51, realizzò i primi disegni per la televisione. Nello stesso anno il New York Times scelse un suo disegno per la pubblicità di un programma radiofonico sul crimine. La prima pagina di un quotidiano nazionale è il trampolino di lancio per acquisire grande fama. "La pietra miliare di una entusiasmante carriera espositiva."Nel giugno del 1952 la Hugo Gallery sulla 55 Strada lo scelse per una mostra personale. È la pietra miliare di una entusiasmante carriera espositiva. In realtà la mostra del ’52 fu un fiasco e, dei quindici disegni ispirati agli scritti di Truman Capote, Warhol non riuscì a vendere nulla. Ma ormai Andy era divenuto l’illustratore pubblicitario più richiesto di New York. Nella Grande Mela Andy scoprì la propria latente omosessualità, repressa nell’ambiente provinciale di Pittsburgh. Egli, refrattario al clima di promiscuità indiscriminata, intrattenne alcune relazioni profonde, come il rapporto con Charles Lisanby, conosciuto nel 1954 e suo compagno per circa dieci anni. Nel 1955 Warhol ebbe una fondamentale occasione: la produzione di una serie di tavole per la catena di scarpe I. Miller, che sarebbe apparsa a scadenza settimanale sul New York Times. La grande passione per le scarpe assunse talvolta in toni del feticismo con l’artista capace di provare piacere nel baciare i piedi calzati dei suoi compagni.
Nel gennaio del 1958 iniziò la carriera artistica in senso stretto. Presso la Leo Castelli Gallery di New York venne allestita una mostra fondamentale per la vocazione di Warhol: la prima grande mostra di dipinti di Jasper Johns della bandiera americana, di bersagli e numeri. Una vera e propria provocazione, per i canoni culturali dominanti, seguita a stretto giro dall’apparizione sulla scena di Robert Rauschenberg. L’arte americana si trovò a un fondamentale punto di svolta. In precedenza (anni ’40 e ’50) gli artisti americani avevano imposto a livello mondiale i loro canoni estetici. Parliamo di Pollock, de Kooning, Rothko e in genere dei protagonisti della Colour Field Painting. I presupposti di questo tipo di visione artistica si basavano sull’esplorazione di aspetti psicologici, espressivi e coloristici, approfondendo le implicazioni del surrealismo, dell’espressionismo e dell’astrattizzazione del colore, abbandonando il concetto di rappresentazione. Su questa tendenza Johns e Rauschenberg imposero la disinvoltura di un approccio neodadaista. Pur senza essere definibili come artisti pop, i due neodadaisti attinsero al repertorio di immagini della cultura di massa, influenzando Warhol. Le mostre di Johns e Rauschenberg spinsero Warhol a rompere con l’arte “commerciale” per divenire un vero artista. Nonostante il prestigioso Certificate of Excellence, conferitogli dall’American Institute of Graphic Arts nel 1959, le immagini di Warhol iniziarono ad incontrare sempre meno successo nella scena newyorkese. La prospettiva dell’insuccesso spinse l’artista a reagire. Nel 1960 diede il via ad una produzione neo-dadaista: urinò su tele bianche come gesto antiartistico. Successivamente stese tele grezze sul marciapiedi davanti alla sua casa di Lexington Avenue in modo che le orme lasciate dai passanti generassero in modo del tutto casuale il prodotto artistico. Tale visione performativa non sembrò riscuotere particolare successo. A questo punto Warhol tornò a quello che sapeva fare meglio: disegnare. I soggetti? Bottiglie di Coca Cola, frigoriferi, televisori, immagini tratte dalla pubblicità dozzinale e dai fumetti. Il regista Emile De Antonio fu il primo a vedere due tele di questo tipo. “Dunque, ascolta, Andy” disse dopo averle osservate per un paio di minuti. “Una è una cagata, c’è dentro un po’ di tutto. L’altra è notevole – è la nostra società, dice quello che siamo, è assolutamente bella e nuda e tu dovresti buttar via la prima e tenere l’altra”. La sua immagine di artista commerciale gli fece incontrare non poche ostilità nel mondo culturale. Solo una persona lo prese sul serio: Ivan Karp, l’assistente di Leo Castelli. Quest’ultimo tuttavia non dimostrò particolare interesse per i suoi quadri. Castelli lo riteneva troppo simile a Lichtenstein, già presente tra gli artisti in galleria. Warhol non si scoraggiò e nel 1961 espose le proprie opere in pubblico: in una vetrina dei grandi magazzini Bonwit Teller sulla 57a strada. "All'alba e al tramonto, passavo ore con loro"“Una delle cose che mi divertono di più nella mia vita di fotografo in giro per il mondo, è vedere come le medesime cose sono fatte in modo diverso. Cose semplici, come per esempio: pescare!”, così inizia il dialogo di Steve McCurry con la curatrice della mostra di Palazzo Sarcinelli Biba Giacchetti. L’immagine, divenuta presto celebre, appartiene ad uno dei viaggi di McCurry nello Sri Lanka. Qui, passando sul litorale della costa sud, il fotografo vide un gruppo di uomini arrampicati su una sorta di stelo in mezzo al mare. Costoro, con una semplice canna di legno, passavano ore estenuanti a pescare pesci uno ad uno. L’anomalia ed il fascino esotico di questo modo antico di esercitare la pesca ha catturato inevitabilmente il fotografo americano che tornò diversi giorni ad osservarli con il proprio obiettivo. “All’alba e al tramonto, passavo ore con loro. Naturalmente immerso anche io in acqua fino al busto. La situazione era più o meno sempre la stessa, loro stavano arrampicati per ore sui loro steli.” "La geometria è quella giusta"Non fu facile come per la ragazza afghana (la cui messa in posa durò pochi istanti), McCurry dovette infatti pazientare per molti giorni prima di cogliere la composizione perfetta. Un pescatore sulla destra ha appena lasciato la sua postazione e viene colto nell’attimo esatto in cui un’onda lo accarezza, nel frattempo i suoi colleghi sono intenti in quel gioco a metà tra pesca e funambolismo. La geometria è quella giusta, la macchina fotografica di McCurry scatta e l’immagine diviene subito una delle sue icons.
McCurry ritornò in quest’area dopo l’avvento dello tsunami che devastò molte coste del paese, cancellandone ampi tratti. Fortunatamente questo luogo specifico è rimasto intatto. La foto dei pescatori in bilico è la più rappresentativa dell’emozionante viaggio che il grande fotografo fece in Sri Lanka nel 1995. McCurry immortalò perfettamente l’essenza della gente del luogo, che ancora si respira viaggiando nel paese. A Tangalla, sulla spiaggia, il ricordo della fotografia è molto vivida e gruppi di ragazzi accolgono i turisti con la testa fasciata da un turbante, mentre imbracciano un bastone lungo e sottile. Essi sono pronti a posare sui trampoli come i pescatori per la gioia degli stranieri. Articolo a cura di Daniel Buso "La fragilità degli esseri umani di fronte alle forze della natura"Una delle serie più ampie di Steve McCurry lo vide impegnato nell’illustrazione di uno dei più imprevedibili e implacabili eventi atmosferici della terra: il monsone. L’immagine più rappresentativa del fenomeno ambientale è un diluvio torrenziale, ma il fotografo intese indagare e rappresentare il monsone in tutte le sue variegate manifestazioni: dalle inondazioni alle tempeste di polvere. La serie è diventata così una dettagliata analisi del terribile monsone e, al tempo stesso, un modo per descrivere le vite di coloro in grado di sopravvivergli e contrastarne gli effetti più distruttivi. Fin dal suo primo viaggio in India (1979-1980) McCurry iniziò a studiare il monsone (dall’arabo mawsim che significa “stagione”). Questo fenomeno atmosferico si abbatte su di un’ampia area geografica che comprende la costa orientale del subcontinente indiano, la Cina, le Filippine, l’Australia. Gli eventi ad esso correlati sono piogge torrenziali o siccità (a seconda delle stagioni), provocati dal contrasto termico tra aree continentali e aree oceaniche. Nella mente di McCurry il progetto fotografico si concretizzò a partire dalla primavera del 1983. L’inizio fu un viaggio nello Sri Lanka, a maggio. Il programma, data l’imprevedibilità del monsone, venne lasciato flessibile: “non ha senso dedicare tante energie alla messa a punto di piani dettagliati. Preferisco arrivare in un posto, immergermi nella sua atmosfera e poi spostarmi seguendo il corso degli eventi”. Da giugno a settembre il fotografo risalì l’India verso nord, allo scopo di seguire il monsone fino all’Himalaya e in Nepal. “Quando venivo a sapere che il monsone era arrivato in una certa regione, mi imbarcavo su un aereo e lo raggiungevo. Qualunque cosa facessi, quando cominciava a piovere lasciavo perdere e correvo fuori a scattare foto. Dovevo mettermi in moto subito perché la fase più intensa delle precipitazioni dura solo qualche minuto”. Le condizioni tecniche per la realizzazione degli scatti furono a dir poco estreme. McCurry dovette concentrarsi nell’impedire che le macchine fotografiche si bagnassero; inoltre, molte immagini furono catturate mentre il fotografo si trovava immerso nell’acqua fino al petto. Per realizzare molte immagini rappresentative McCurry si spinse al limite, evidenziando la fragilità degli essere umani di fronte alle forze della natura e rivelando, al tempo stesso, l’illusorio senso di sicurezza che prova il fotografo quando vede il mondo attraverso il filtro del suo obiettivo. "Cogliere l'opportunità"La serie sul monsone continuò a svilupparsi in diversi centri come Varanasi, nell’India settentrionale, Delhi. In queste grandi città l’imperturbabilità dei locali di fronte al fenomeno spinse McCurry ad affermare: “solo allora mi resi conto che non stavo fotografando un disastro naturale, ma un evento che si ripeteva ogni anno”.
Dopo la visita delle zone inondate dagli acquazzoni, la troupe si trasferì in regioni aride, come il deserto del Thar nel Rajasthan. McCurry attraversò l’area a bordo di un taxi scassato e si soffermò su una zona dove non pioveva da tredici anni: “per chilometri e chilometri, tutt’intorno si formò un’enorme muraglia di polvere che si muoveva come un’onda di marea e che alla fine ci avvolse in una spessa nebbia”. Il fotografo interruppe la sua marcia e si mise ad osservare un gruppo di donne e bambini. Costoro si strinsero reciprocamente per ripararsi dalla sabbia e dalla polvere, “cantavano e pregavano e a malapena riuscivano a reggersi in piedi”. La fotografia scattata in questa occasione è tra la più celebri di McCurry. La perfetta rappresentazione di un principio che l’artista ha sempre seguito nel corso della sua lunga attività: ovvero essere sempre presenti a se stessi, avere piena consapevolezza del luogo in cui ci si trova, senza pensare al luogo in cui si è diretti. Cogliere l’opportunità! E celebrare, nel breve tempo di un’istantanea”, tutta l’irripetibile magia dell’uomo o della natura. La foto vene realizzata ben prima dell’avvento del digitale e McCurry poté controllare il suo operato solo molte settimane dopo, al suo rientro negli Stati Uniti. Le donne per proteggersi si erano chiuse a cerchio dando vita all’immagine straordinaria di un fiore rosso. Articolo a cura di Daniel Buso Per info sulla mostra clicca il pulsante qui in basso "Un popolo le cui caratteristiche peculiari sono a rischio di estinzione"Da quando la Cina ha annesso il Tibet, circa cinquant’anni fa, i tibetani hanno lottato per mantener vive le proprie tradizioni. Durante la Rivoluzione Culturale, in particolar modo, migliaia di templi, monasteri e uffici governativi sono stati distrutti. Nonostante le devastazioni e l’incremento della schiacciante presenza cinese, la maggior parte delle persone persevera nelle proprie usanze tradizionali. McCurry ha viaggiato nei territori tibetani fin dal 1989 documentando la società di un popolo le cui caratteristiche peculiari sono a rischio estinzione. Il popolo e i luoghi incontrati hanno avuto su McCurry un effetto profondo nella comprensione e nella documentazione delle culture antiche e il suo rapporto con questo paese si è trasformato presto da professionale in passionale. Otto sono i suoi viaggi in Tibet, assidua frequentazione che gli ha permesso di diventare uno degli osservatori più attenti delle dinamiche locali. “Una delle cose che mi sorprende di più del popolo tibetano”, racconta “è la devozione al buddismo, che ha mantenuto nonostante tutti gli eventi dell’ultimo secolo”. Durante il suo primo viaggio, a causa di disordini a Lhasa prima del suo arrivo, McCurry non ottenne il permesso di accedere alla città e ripiegò su Shigatse, seconda città per importanza, dove si trova il monastero di Tashi Lhunpo. Nel 1999, McCurry trascorse tre mesi nel paese e poté finalmente fermarsi a Lhasa per visitare il palazzo del Potala, un monastero buddista ora trasformato in museo. Poteva viaggiare, all’interno del paese, più liberamente di quanto fosse stato possibile una decina di anni prima, fotografando pellegrini al monastero di Gyantse e altrove e presenziando alla fiera equina annuale di Tagong, nelle praterie del Kham nel Tibet orientale. Qui trovò più interessante la varietà di persone che assistevano all’evento, rispetto che la festa stessa e immortalò i volti di diversi passanti, fra cui la donna variopinta in oggetto. In tali occasioni McCurry si muove sempre oltre l’evento principale per cercare scene nascoste, ai margini dello spettacolo. Egli è maggiormente interessato ai singoli, piuttosto che alle scene di gruppo, e tale rapporto a due gli permette di rapportarsi in profondità con i soggetti che di volta in volta incontra. "I tibetani saranno sopraffatti completamente, come accadde ai nativi americani"Lo stile dell’immagine, comune a innumerevoli suoi ritratti, prevede che il soggetto sia posto direttamente di fronte alla macchina fotografica, a mezzo busto. Il rapporto con la persona diventa intimo e lo sguardo radente dello spettatore non può che restare soggiogato dall’intensità della composizione.
L’immagine che McCurry ci consegna del Tibet è quasi bloccata nel tempo, un luogo inalterato e ricco di spiritualità. In realtà, come racconta egli stesso, i simboli della cultura occidentale sono sempre più visibili in tutto il paese. I monaci iniziano ad indossare occhiali da sole, si stanno diffondendo tecnologie come la televisione e i cellulari. Nel percorso di modernizzazione del Tibet, McCurry esprime tutta la propria preoccupazione, temendo che “i tibetani saranno sopraffatti completamente, come accadde ai nativi americani negli Stati Uniti”. Però, prosegue McCurry, i tibetani appartengono a un popolo che raramente sprofonda nell’angoscia e nell’inquietudine: “C’è un detto in tibetano: la tragedia dovrebbe essere utilizzata come una fonte di forza. Non importa quante siano le difficoltà o quanto dolorosa sia un’esperienza, il vero disastro accade solamente quando si perde la speranza”. Articolo a cura di Daniel Buso Scopri la mostra "Steve McCurry. Icons" cliccando sul pulsante qui in basso |
Daniel BusoStorico dell'arte e direttore artistico di ARTIKA Archivi
Febbraio 2025
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