La Legenda Aurea di Jacopo da Varagine (1228-1298) racconta storie di guerre e conflitti originati da motivazioni religiose e culturali. Come durante l'epoca dell'Imperatrice Elena (III secolo), il nostro presente non riesce a svincolarsi da queste problematiche. La ricerca di predominio e l'imposizione di determinate ideologie attraversano, destabilizzandolo, il nostro tempo.La storia sistematicamente deviata verso il conflitto è il contenuto di una grande opera d'arte contemporanea intitolata Le Storie della Vera Croce. L'autore è Luigi Presicce, il cui progetto, composto da un ciclo di dieci videoinstallazioni, è stato recentemente protagonista di un'importante mostra negli spazi del Mattatoio di Roma. Il ciclo di Presicce trae la sua ispirazione dalla fluida narrazione di Jacopo da Varagine che nel XIII secolo raccolse un'infinità di aneddoti sulla storia del cristianesimo. A questa incredibile fonte iconografica, e in particolare alle Storie della Vera Croce, si è ispirato anche Piero della Francesca (1416-1492) nella realizzazione di uno dei cicli pittorici più importanti dell'origine del Rinascimento in Italia: quello di San Francesco ad Arezzo. Le storie di Luigi Presicce al Macro e di Piero della Francesca ad Assisi sono l'argomento di questo articolo: un viaggio in due epoche così distanti della storia dell'uomo, benché tristemente accomunate da violenza e instabilità. Il grande pittore toscano, primo utilizzatore consapevole della prospettiva in arte, è estremamente fedele al testo e si limita a presentare gli episodi sacri con spirito didascalico. Luigi Presicce parte dalle storie del Sacro Legno per dar vita ad un racconto più complesso in cui il tema delle guerre di religione attraversa diverse epoche storiche. "Una specie di tentativo di riconciliazione religiosa per essersi arricchito in modi non del tutto tollerati dalla Chiesa"La Basilica di San Francesco ad Arezzo è una sobria costruzione trecentesca, costruita in pietre e mattoni. La sobrietà (francescana) dell'esterno è presto superata dalla fastosità del ciclo di affreschi (in larga parte lacunosa) che ci accoglie appena varcata la soglia di ingresso. Il nostro sguardo è subito catturato dalla Cappella maggiore nel presbiterio. Qui, tra il 1453 e il 1464, Piero della Francesca vi dipinse il celebre ciclo di affreschi delle Storie della Vera Croce. Iniziato dal pittore Bicci di Lorenzo, divenne un capolavoro della pittura rinascimentale grazie all'intervento del suo erede. La genesi del ciclo è datata 1417. In quell'anno morì Baccio di Maso Bacci (ricco mercante aretino) che lasciò un generoso capitale per la decorazione del coro. Una specie di tentativo di riconciliazione religiosa per essersi arricchito in modi non del tutto tollerati dalla Chiesa; come il prestito, ritenuto peccati di usura. Trent’anni dopo l'erede Francesco Bacci commissionò all’anziano artista fiorentino Bicci di Lorenzo (di stile tradizionale) la realizzazione dell'opera. La morte colse il pittore nel 1452, lasciando libero spazio all'iniziativa di Piero della Francesca. Assai trascurate in passato, le opere vennero “riscoperte” solo alla metà dell’Ottocento quando si risvegliò l’interesse per questo grande maestro da parte di viaggiatori inglesi. Costoro, dopo aver ammirato il suo Battesimo di Cristo alla National Gallery di Londra, si riversarono ad Arezzo e a Sansepolcro per apprezzare la sua “laicità”: ovvero la nuova scienza prospettica e l’ispirazione, che secondo loro, derivava dall’arte greca. Lo stesso Degas, visitando Arezzo, trasse ispirazione per le sue opere classicheggianti. "In hoc signo vinces"Le Storie della Vera Croce di Piero della Francesca coprono un vasto arco cronologico: dalla Genesi fino al 628 d.C., quando il legno della Croce, dopo il furto, venne riportato a Gerusalemme. La scelta del soggetto è motivata dalla grande adorazione che i francescani provavano per la Croce. La visione del Cristo sulla Croce da parte di Francesco d’Assisi era stata il culmine della sua vita religiosa, premiandolo con il contrassegno delle celebri stimmate. L'episodio di partenza del racconto pierfrancescano è la Morte di Adamo [Fig. 2]. Il primo uomo sta per morire ed è accasciato sulla destra dell'affresco con l’anziana Eva alle sue spalle. Il figlio Set (sullo sfondo) sta per ricevere dall’arcangelo Michele il germoglio dell’Albero della Conoscenza. Dall’albero, che visse fino ai tempi di Salomone (900 a.C.), nascerà il legno per la Croce di Cristo, fonte di grande dolore per generazioni di esseri umani. Nel Ritrovamento delle tre croci e verifica della Croce [Fig.1] si vede l'Imperatrice Elena che ha appena ritrovato la croce di Gesù e quelle dei due ladroni. Non riuscendo a capire quale possa essere quella di Cristo, le fa esporre sopra il cadavere di un giovane appena morto. Costui miracolosamente risorge allorché viene a contatto con la sacra reliquia. A quel punto Elena e il suo seguito si inginocchiano adoranti. Segue un episodio meno nobile e che rischia, secondo la sensibilità odierna (e non solo), di mettere in cattiva luce l'imperatrice: mi riferisco alla Tortura dell’ebreo. La Croce, dopo la morte di Cristo, è stata sepolta e solo un ebreo di nome Giuda è a conoscenza del luogo. Per obbligarlo a parlare Elena lo fa calare in un pozzo, lasciandolo lì dentro fino a quando vorrà parlare. Due concitate scene di battaglia (Battaglia di Eraclio e Cosroé e Vittoria di Costantino su Massenzio) ci conducono all'affresco più famoso dell'intero ciclo, tra i più celebri di tutta la storia dell'arte. Il Sogno di Costantino [Fig.3]. Nella scena vediamo un angelo portare in sogno a Costantino, addormentato nella sua tenda di notte, la rivelazione della Croce e della vittoria su Massenzio a patto della sua conversione. L’Angelo gli porta una minuscola croce, simbolo dell’In hoc signo vinces. Costantino apporrà il segno della croce sulla divisa dei suoi soldati e vincerà le future sfide militari . L'episodio, retrospettivamente, può essere letto come l'inizio del militarismo cristiano. Il momento fondamentale in cui i rappresentati di questa religione votata alla pace "tradiscono" definitivamente la parola del loro profeta. Il Sogno di Costantino, al di là di ciò che rappresenta, è la prima veduta notturna pienamente convincente dell’arte europea prima di Caravaggio. Solo in seguito si scoprì che Piero voleva dipingere un’alba. "Un racconto serrato e visivamente travolgente"Muovendosi tra diversi media espressivi (performance, tableaux vivants, pittura, video), Luigi Presicce costruisce la sua complessa narrazione accostando mitologia, storia, superstizione e religione. L'ispirazione, come in Piero della Francesca, proviene dalle Storie della Vera Croce di Jacopo da Varagine.
Il linguaggio dell'arista contemporaneo (1976) è costruito tramite una continua trama di citazioni e rimandi a diversi repertori iconografici. La cultura popolare, la storia antica e contemporanea, la storia della religione e l'esoterismo fungono da bacino a cui attingere in modo del tutto libero. Al centro di tutto vi è l'uomo, raccontato nella sua esistenza storica e materiale spesso incline alla violenza e al non sense, ma al tempo stesso rappresentato nella sua nobile tensione vero la spiritualità. La mostra di Roma raccoglie dodici performance realizzate a partire dal 2012, liberamente ispirate agli affreschi di Piero della Francesca. L'episodio della Morte di Adamo presenta [Fig.4] una rispondenza iconografica attenta all'opera omonima di Piero [Fig.2]. Nella bocca del primo uomo è piantato l'Albero della Conoscenza, destinato a produrre il materiale per la Vera Croce. Sullo sfondo un moderno Adamo riceve dall'arcangelo l'Albero, mentre sulla sinistra una coppia di performers regge il modellino del Tempio di Salomone; destinato in altri tempi a divenire sede dei terribili Templari. Il racconto di Luigi Presicce prosegue con le vicende relative all'Imperatrice Elena e l'In hoc signo vinces che condusse alla vittoria in battaglia l'esercito di Costantino. La scelta di fregiarsi di un simbolo divino per basse ragioni politiche si ritrova tale e quale nella decisione di Hitler di assumere il simbolo della Svastica, uno dei segni più antichi e magici della storia dell'esoterismo indoeuropeo. I video di Presicce sono magnetici e ricolmi di simbologie. Un racconto serrato e visivamente travolgente sostenuto da un'estetica formale calibrata e estremamente appagante. Non è ovviamente possibile affermare quale dei due cicli sia meglio riuscito, dal momento che entrambi sono perfettamente rappresentativi dell'epoca in cui sono stati prodotti. Elegiaco e didascalico, seppur esteticamente rivoluzionario, quello di Piero della Francesca. Critico e demistificatore quello di Luigi Presicce, in un'epoca in cui gli artisti possono giocare un ruolo politico e sociale di guida, illuminando il buio che ci circonda. Articolo a cura di Daniel Buso
0 Comments
"Può la passione per l'Arte sconfiggere la calura estiva?"In un periodo tormentato in cui mostre e musei sono sempre a rischio di chiusura anticipata, noi di ARTIKA approfittiamo di ogni momento disponibile per immergerci nell'Arte. Incuranti delle temperature sahariane abbiamo trascorso due giorni nella capitale con un unico scopo: visitare mostre e musei! Passata la sbornia per le prodezze calcistiche, Roma si presenta smagliante colpita da una luce tersa che la rende divina, in linea con la sua eternità. Passeggiare per le vie, solitarie rispetto agli standard pre-Covid, è impresa ardua in questa stagione. Di conseguenza confluiamo nelle strutture espositive alla ricerca di stimoli culturali e di aria condizionata. Le tappe di questi due giorni sono serrate e il mio resoconto, oltre a cercare di convincere chi legge a ripercorrere il percorso, si muove senza un preciso ordine cronologico, mescolando stili e periodi della storia dell'arte dal Rinascimento ad oggi. Qui in breve le esposizioni visitate: la Galleria Doria Pamphilj a pochi passi dal Vittoriano, la mostra del contemporaneo Nico Vascellari alla Fondazione Nicola del Roscio , e il World Press Photo al Macro. "Dove conduce la sete incontrollata di ricchezza"La Galleria Doria Pamphilj, pur centralissima in Roma, è uno scrigno traboccante di preziose opere d'arte leggermente distante dai flussi turistici di massa. Un Palazzo strepitoso, un concentrato di arte e di storia che riflette la grandezza di alcune tra le più grandi famiglie nobiliari italiane. La Galleria deve il suo aspetto attuale agli interventi voluti dal principe Camillo Pamphilj tra il 1731 e il 1734. Le sale raffinate sono un tripudio di tappezzeria, stucchi, marmi, soffitti affrescati e, ciò che più ci interessa, dipinti realizzati tra il Quattrocento il Settecento. L'emozione per gli spettatori è diversa rispetto a quella di un normale museo. Si ha la possibilità di rivivere l'atmosfera autenticamente vissuta dai nobili ospiti che ebbero l'opportunità di sostarvi nella seconda metà del Settecento. La famiglia Pamphilj è ancora proprietaria dell'immobile e delle meraviglie ospitate al suo interno, ma ha deciso di rinunciare alla superba contemplazione privata per consentire a tutti di beneficiare delle bellezza ospitata. In tal senso dimostrando più fedeltà agli ideali dei rivoluzionari napoleonici rispetto che alla bramosia personalistica di generazioni di aristocratici. I dipinti riempiono letteralmente ogni spazio disponibile a parete e, dopo un inizio incerto con opere minori di Federico Barocci e Mattia Preti, entriamo subito nel vivo con una bellissima Creazione degli animali attribuita a Jan Brueghel. All'alba del Seicento il maestro fiammingo non rinuncia alla particolare verve creativa dei suoi connazionali accostando ad animali reali bestie immaginarie i cui profili sembrano emergere dai recessi di una mente contorta. A Brueghel seguono in rapida successione, e forse in alcuni casi con attribuzioni forzate, mitologie di Paris Bordon, alcuni notturni di Francesco Bassano, una Deposizione di Paolo Veronese, un raffinato doppio ritratto di Raffaello Sanzio, i tre Caravaggio (che sono poi i capolavori imperdibili del percorso espositivo) e poi ancora ritratti psicologici di Lorenzo Lotto, una Sacra Conversazione di Giovanni Bellini e molto altro ancora. Il tutto esposto al di fuori di rigidi schemi cronologici o narrativa ma seguendo, pare, il gusto personale delle personalità che li collezionarono. Senza dimenticare il rubicondo Innocenzo X di Válzquez (a cui, opportunamente, è stata dedicata una sala privata), mi soffermo brevemente su di un'opera squisita: I vecchi avari (fig.2) di Quentin Massys. Il pittore è fiammingo, vissuto tra la seconda metà del Quattrocento e i primi decenni del secolo successivo. Tra i titoli delle sue opere troviamo Gli esattori o Il banchiere e sua moglie, quasi a suggerirci una specializzazione nel rappresentare i pionieri del capitalismo moderno. Massys è cantore di un'umanità diversa rispetto a quella raccontata dagli artisti coevi della penisola. Da lui i committenti non sono aristocratici o prelati in odore di santità ma ricchi borghesi. Nel dipinto in oggetto (I vecchi avari), però, non troviamo l'elegia di una personalità dominante, bensì l'espressione della corruzione di un mondo in cui il denaro è più importante dell'uomo. I protagonisti hanno fattezze spiacevoli e sguardi avidi, ma la loro bruttezza è tutta interiore: la bramosia del possesso di fredde monete metalliche li ha svuotati di spiritualità e di umanità. Un dipinto che è specchio di un'epoca buia la quale, azzardo, perdura ancora oggi. Forse le opere di Massys dovrebbero essere insegnate nei programmi di storia dell'arte fin dall'infanzia, per mostrare alle nuove menti dove conduce la sete incontrollata di ricchezza. "Il numero uno"Dopo l'immersione nella storia della famiglia Pamphilj e relativa parata di capolavori classici ci spostiamo verso la Fondazione Nicola del Roscio. Siamo sempre nel cuore di Roma, tra Piazza di Spagna e via del Tritone. Si tratta di uno spazio di arte contemporanea, istituito per valorizzare e raccontare in modo innovativo la creatività del presente e del futuro. Un elegante edificio degli anni Venti, in via Francesco Crispi 18, ospita un vasto spazio espositivo di 700 metri quadrati. Prima di questo weekend non la conoscevo, mea culpa! Aperta nel 2019, la Fondazione è al suo quinto progetto espositivo, sempre a cura di Pier Paolo Pancotto. Protagonista di questa incerta estate 2021 è l'artista veneto Nico Vascellari. Nato a Vittorio Veneto nel 1976, vive e lavora tra Roma e New York. Di lui si parla molto negli ultimi anni: performer, artista visivo, musicista con i suoi Ninos du Brasil . Nico è stato definito dalla dea della performance, Marina Abramović: "il numero uno". Il suo lavoro è puro dinamismo. Vascellari si muove instancabilmente tra diversi strumenti espressivi, mescolando linguaggi creativi che dal video lo portano al collage, l'installazione e la performance. Recentemente si è reso protagonista di un'esperienza unica, figlia del lockdown: il progetto IONOI. 20 performance in 20 venti giorni consecutivi in 20 regioni d'Italia. Quando musei, cinema e teatri erano chiusi, i Ninos du Brasil hanno prodotto e mostrato Arte nelle case di chi li ha accolti. Negli spazi della Fondazione del Roscio, Vascellari presenta qualcosa di diverso rispetto a ciò a cui ha abituato il suo pubblico. La frenesia si trasforma in quiete, il vitalismo in contemplazione. Roma gli dedica una prima antologica come vuole la tradizione. Il visitatore non partecipa ma osserva e passa da un'opera all'altra seguendo una logica che rassomiglia più a un museo che a un cantiere creativo. Vent'anni di attività artistica, dai primi lavori (lasciati ad uno stadio progettuale per mancanza di fondi) alle performance che gli hanno acceso i riflettori addosso. Grazie alla narrazione museale, quelle prime opere si tingono di romanticismo. Immaginiamo il giovane artista impegnato a progettarle, ben sapendo che non avrà i mezzi per costruirle. Oggi ci sono, completate tra il 2020 e il 2021, e qui "ripresentate" o più semplicemente "presentate" per la prima volta gli occhi del pubblico. All'ingresso un meccanismo automatizzato schiaccia metodicamente dei pupazzi gommosi facendo loro emettere un suono che risulta disturbante. Al centro della sala un monumentale parallelepipedo rosa si aziona al nostro passaggio, mettendo a rischio l'incolumità del visitatore distratto. E poi ancora una selezione di opere che flirtano con l'immaginario Pop mischiando brand commerciali che sfruttano e stravolgono il corpo degli animali e prodotti di consumo che appaiono in sovrabbondanti forme capaci di nausearci alla maniera di Oldenburg (opere quest'ultime in cui la materia prima è la cioccolata pasquale). Nico Vascellari non è un artista puramente concettuale, poiché lancia quasi sempre un forte messaggio socio-politico. La mostra è il ritratto di un artista impegnato che ambisce a ricavarsi un ruolo di assoluto protagonista del nostro secolo. Affrettatevi! L'esposizione è visitabile fino al 25 settembre 2021. "Gli umani non sono soli in questo pianeta"Chiudo il mio racconto odierno con l'ultima tappa del piacevole weekend capitolino. Come anticipato nell'introduzione, ci siamo trasferiti nel rione Testaccio, quartiere traboccante di murales realizzati da grandi artisti come Blu e Roa. Nel quartiere svetta trionfante l'agglomerato di edifici industriali che hanno ospitato un tempo il lugubre mattatoio della città e che oggi, in parte ristrutturati, accolgono il celebre MACRO.
Spazio interamente votato al contemporaneo, il MACRO sforna progetti di interesse internazionale e ospita spesso residenze di artisti provenienti da tutto il mondo. Recentemente ha accolto un progetto sperimentale di Luigi Presicce, di cui parlerò nel prossimo articolo del Blog di ARTIKA. Oggi mi soffermo invece sulla mostra fotografica che sarà visitabile fino al 22 agosto 2021: il World Press Photo. Il premio è giunto alla 64° edizione! Un vero e proprio polo di attrazione che ha visto coinvolti 4315 fotografi da 130 paesi, per un totale di 74.470 immagini presentate. Un lavoro sovraumano da parte della giuria che ha pazientemente selezionato le 141 foto finaliste, visibili alle pareti dell'ex macello. Politica, società, cambiamento climatico, pandemia e guerre. Praticamente tutti gli argomenti salienti dell'attualità sono stati sviluppati dai fotografi che hanno passato le selezioni. Nel complesso una mostra che suscita un vortice di emozioni. Dal profondo scoraggiamento per i mali che affliggono il nostro tempo, alle lacrime che scaturiscono per la profonda bellezza di gesti che svelano il vero senso dell'esistenza ai quattro angoli del pianeta. Le opere più drammatiche sono anche quelle su cui il nostro occhio si sofferma di più. Come sempre, la tragedia ci spinge a indugiare: tra un vago desiderio morboso di contemplare l'inaudito e la trascinante empatia che ci porta a solidarizzare con le sfortune altrui. Storie di detenuti trattenuti ingiustamente per ragioni politiche, l'esperienza di un uomo transgender nella fredda (per clima e chiusura al diverso) Russia, sciami di locuste che invadono il Kenya (in piena spirito apocalittico), gli occhi straziati di un maiale in un allevamento intensivo, le persone reali dietro al movimento Black Lives Matter e ancora gli angoscianti campi profughi ai margini dell'Occidente. C'è spazio anche per il Covid e le repressioni poliziesche nelle fragili democrazie sudamericane. Ma l'immagine su cui desidero soffermarmi è quella che vi riporto in foto (fig.4). Una coppia di piccioni selvatici ha fatto amicizia con la famiglia del fotografo, durante il lockdown in Olanda. Ollie e Dollie, li hanno chiamati; due presenze abituali in casa a ricordare che gli umani non sono soli in questo pianeta. Articolo a cura di Daniel Buso |
Daniel BusoStorico dell'arte e direttore artistico di ARTIKA Archivi
Gennaio 2024
Categorie |