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IL BLOG DI ARTIKA

MODIGLIANI. Maudit

22/2/2021

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"Il cigno di Livorno "

Modigliani. Italiano. Ebreo. Con queste tre semplici parole Amedeo Modigliani accompagna il suo ingresso al Café La Rotonde di Parigi. L'immagine è quella di un giovane scapigliato, vestito di abiti logori ma affascinante e di bell'aspetto, anzi bello. Così lo descrivono i testimoni oculari: "il cigno di Livorno".

Modigliani è un giovane pittore inesperto che dalla provincia italiana si trova catapultato nella metropoli, cuore pulsante delle arti e della letteratura europea. Scende alla Gare de Lyon, la stazione che accolse migliaia di immigrati italiani a partire dalla fine del 1800.
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Il suo aspetto è quello di un dandy dai modi aristocratici, anche se i suoi vestiti non sono all'ultima moda locale. Al suo arrivo a Parigi, Amedeo gode di una discreta rendita familiare che gli consente di dedicarsi alla sua carriera senza eccessive preoccupazioni. Ma questa serenità lo abbandona rapidamente e così i suoi modi aristocratici sembrano a poco a poco svanire per lasciare spazio alla figura con cui verrà ricordato: un bohémien dallo stile di vita disordinato e trasandato.
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"Uno stile di vita sempre più rovinoso "

La sua parabola personale si compie così, nel volgere di pochi anni, tra Montparnasse e Montmartre, i quartieri che resteranno per sempre impressi nell'immaginario collettivo come l'epicentro della vita artistica parigina.
L'alcol entra ineluttabilmente a far parte dell'esistenza di Modigliani e in particolare l'assenzio. La fata verde che esalta i sensi ma corrompe progressivamente l'anima.

Amedeo si ritrova a occuparsi principalmente di ritratti. E le sue figure appartengono perlopiù a modelle (professioniste o improvvisate) che si spogliano nei suoi innumerevoli studi pittorici. Le donne posano in atteggiamenti disinibiti davanti all'artista che è capace di farne affiorare lo spirito interiore sulla superficie delle tele e dipingerle come se fossero viste attraverso il vetro deformante di una bottiglia di assenzio.

La vita scapestrata del pittore italiano si svolge nella capitale francese accanto ai più grandi nomi della pittura mondiale del Novecento. Picasso, Matisse, Chagall, per varie ragioni confluiscono a Parigi dove impongono rapidamente la propria firma su ciò che di meglio ha da offrire l'arte contemporanea.

Modigliani li conosce, soprattutto Picasso, ma la sua amicizia si lega in particolare agli artisti che più ne condividono l'eccentricità e lo stile di vita dissoluto. Il primo è Soutine, un ebreo in fuga dai pogrom nell'Europa dell'Est, maleodorante e sgarbato. Molti gli aneddoti che accompagnano la sua vita: dal fatto che non si fosse mai cambiato la giacca all'età di trent'anni, fino alla scoperta assai tardiva dello spazzolino. L'altro grande amico di Amedeo è invece Maurice Utrillo, un francese dal cognome spagnolo e figlio di Suzanne Valadon, pittrice di discreto successo. Maurice sembra sia alcolizzato fin dall'infanzia quando la nonna, per calmarlo, gli somminista vino assieme al più convenzionale latte. Utrillo vive tutta la vita sul confine sottile tra il genio lucido e la follia ospedaliera, trascorrendo molti mesi in traumatiche strutture ricettive per malati di mente.

Dei due artisti sopracitati il nostro pittore non condivide l'infanzia dolorosa. Amedeo infatti cresce all'interno di una famiglia della borghesia livornese e, nella sua permanenza in Italia, non subisce nessuna discriminazione per il fatto di essere ebreo. Ma in Francia è un'altra cosa. Le finanze di Modigliani non sono più così stabili, gli ebrei in certi ambienti non sono ben visti e in diversi episodi il pittore si rende conto di come quella religione, di cui non è mai stato fervente devoto, possa provocargli ostilità e antipatie. Ciò che compromette irreversibilmente la salute di Amedeo è però l'indifferenza della comunità parigina nei confronti della sua arte. Una ostilità che è in qualche caso diffidenza ma nella maggior parte dei casi indifferenza. Questo crea una frattura nello spirito dell'artista portandolo ad assumere uno stile di vita sempre più rovinoso.
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"Maledetto! E maledetta è la sua esistenza "

Gli amici di bevute, Soutine e Utrillo, raggiungono un ampio successo in vita. Modigliani, come è noto, brancola nel buio dell'indifferenza generale. Il pittore riceve l'onore di un'unica mostra mentre è ancora sulla terra. Siamo nel 1917 e la gallerista è la celebre Berthe Weil. La mostra dura solo qualche ora: il motivo ufficiale delle chiusura è l'oltraggio alla morale pubblica. I quadri vengono rapidamente coperti dalle forze dell'ordine con teli neri. Berthe tenta una strenua linea di difesa affermando che anche al Louvre molti corpi sono nudi. Il commissario di polizia le risponde che i nudi del museo francese non hanno i peli pubici bene in vista.

I corpi ritratti da Modigliani hanno forme morbide e angolose, colli da cigno e grandi occhi da statua greca e, in molti casi, i peli pubici dipinti con tono disinibito e audace rispetto alla rigida morale del tempo. Le sue figure sono accattivanti e portatrici di un'intensa sensualità. Non sono rappresentazioni rigidamente realistiche, ma è proprio il tocco personale e onirico che attribuisce maggiore magnetismo ai suoi corpi.

Modigliani viene chiamato "Modì" dagli amici francesi. Un nomignolo che in francese può essere scritto anche così: maudit. Traduzione letterale: maledetto! E maledetta è la sua esistenza, composta da luci e ombre. Una vita segnata da una malattia presa in tenera età, la meningite tubercolare, che si aggraverà nel corso degli anni anche a seguito delle scelte dissolute del nostro protagonista.
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"La felicità è un angelo dal volto serio "

"La felicità è un angelo dal volto serio". Citando le parole dello stesso Modigliani, andiamo alla scoperta del suo amore estremo. La protagonista è Jeanne Hébuterne, devota amante fino all'estremo sacrifizio (come rievoca il testo inciso sulla sua lapide). Pittrice talentuosa, giovanissima, dagli occhi sperduti e intensi.

L'incontro tra Jeanne e Amedeo dà il via ad un periodo di illusoria pace e tranquillità. L'amore è eccezionalmente intenso e da esso nascerà Giovanna, seconda figlia di Modigliani, ma prima ad essere riconosciuta dal padre. Parallelamente si aggrava però la salute del pittore e le sue svariate dipendenze modulano sempre più in negativo il suo già instabile carattere. 

Il gennaio del 1920 è il più nero. Modigliani ha 37 anni, 10 in più del mitico club di Rock Star. Muore il giorno 24 di quel mese. Maledetto di nome e di fatto lascia la terra senza il successo di cui avrebbe meritato di godere almeno un po' mentre era in vita. E invece eccolo lì il successo, inaspettato e subdolo, arriva mentre un folto pubblico di artisti e intellettuali accompagna il feretro. In coda qualcuno mormora, si vendono quadri e disegni a centinaia di franchi. Cifre destinate ad essere terribilmente moltiplicate nel giro di pochi decenni.
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All'alba del giorno dopo i funerali, l'amata Hébuterne si lascia cadere dal piano più alto della casa dei genitori e muore portando con sé il secondo figlio ancora in grembo. La morte improvvisa, il tragico suicidio di Jeanne, ancor più doloroso forse della morte di Amedeo, sono sulla bocca di tutti a Parigi.

Il mito si è costruito in poche ore. Tutti vogliono Modigliani. Il debole pittore livornese, che pochi giorni prima molti disprezzavano e la maggior parte ignoravano, è ora tra gli artisti contemporanei più ambiti.
E così riposa nel cimitero Père Lachaise di Parigi, vicino a Molière, Oscar Wilde e all'icona rock con cui condivide la vita dissoluta: Jim Morrison.
Articolo a cura di Daniel Buso
Per un più ampio approfondimento sulla figura di Modigliani consigliamo la lettura di "Modigliani. L'ultimo romantico" di Corrado Augias.

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SAN GIOVANNI IN BRAGORA

18/2/2021

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Cosa fare nel weekend con musei e mostre chiusi? Sabato scorso abbiamo trovato la risposta! Andare nella Chiesa di San Giovanni in Bragora a Venezia. Una chiesa che sembra una galleria d'arte con capolavori di Bartolomeo e Alvise Vivarini e di Cima da Conegliano.

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Entriamo subito in chiesa (occhio agli orari ridotti! Si può entrare dalle 9 circa alle 11:30, dal lunedì al sabato; mi raccomando evitate di andarci di domenica perché il sacerdote dall'altare non ignorerà la vostra "sgradita" presenza). L'architettura interna è sobria con il consueto soffitto ligneo a capriate che ricorda la carena di una nave. Ma le pareti e gli altari traboccano di opere d'arte! L'impressione è subito quella di trovarsi in un museo.

Partiamo da destra dove ci imbattiamo nella Cappella dedicata a San Giovanni l'Elemosiniere (1481). L'altare ospita le preziose reliquie del Santo (qui dal 1249).
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Alle pareti della navata destra troviamo invece, in rapida successione, alcuni capolavori del '400 veneziano. 
Si comincia dal "Sant'Andrea tra i Santi Martino e Girolamo" di Bartolomeo Vivarini (immagine qui in alto). Il trittico è firmato e datato 1478. L'opera presenta ancora quei caratteri conservatori tipici dell'arte di Bartolomeo Vivarini in un momento in cui la pittura veneziana risente delle suggestioni innovative di Antonello da Messina e Giovanni Bellini.

Tradizionalismo, quindi. Questa la caratteristica più evidente di uno dei rappresentanti più autorevoli della bottega di artisti da Murano che saranno attivi a Venezia fino al '500 inoltrato. Il formato del trittico è di per sé obsoleto, in quanto ricorda le composizioni gotiche, e in più le figure sono caratterizzate da un linea ancora medievale e da colori smaltati (che tanto ci fa pensare al celebre vetro muranese). I personaggi non sono spontanei ma rimangono astrattamente isolati contro il fondo d'oro: prezioso sì, ma ormai attempato in questa fase storica. Siamo nel pieno Rinascimento e gli sfondi architettonici o paesaggistici sono ampiamente diffusi.

"Una delle più
importanti sculture lignee
esistenti a Venezia 
"

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Vicino al Vivarini trionfa il "Crocifisso" di Leonardo Tedesco del 1491 (immagine in alto). Siamo di fronte a una delle più importanti sculture lignee esistenti a Venezia! L'opera è lavorata a tutto tondo ed è composta da materiali interamente originali. Anche la croce (che conserva ancora la pittura in superficie) è insolitamente contemporanea alla figura di Cristo. Non capita spesso di trovarsi di fronte a un manufatto così prezioso, sapientemente intagliato dagli autori con raffinato realismo e assolutamente originale in ogni sua piccola parte.

"Uno dei più belli esempi
della pittura veneziana
di fine '400 
"

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Le sorprese di questa navata destra non finiscono qua! In fondo a destra, prima del presbiterio, una piccola urna realizzata (credo) qualche anno fa, ospita un oggetto sensazionale. Impossibile capire di cosa si tratti a meno di non chiedere al custode della chiesa, il quale è ben contento di comunicarci che si tratta di un ossicino della spalla di San Giovanni Battista. L'emozione è alta e, anche se lo scetticismo ci porta a diffidare di questa rivelazione, è impossibile non percepire le vibrazioni lasciate da migliaia di fedeli che nel corso dei secoli hanno venerato questa reliquia.

Dopo il "toco del Batista" ammiriamo il capolavoro di un altro Vivarini: Alvise, nipote del già citato Bartolomeo.
Il "Cristo risorto" di Alvise Vivarini è datato 1498 (circa) ed è a pieno titolo uno dei più belli esempi della pittura veneziana di fine '400 (immagine in alto). Alvise Vivarini è all'apice della sua maturazione. Stilisticamente è stato capace di aggiornarsi sulla scia del classicismo che è arrivato a Venezia anche grazie alla presenza del Perugino.
​
​Le grandi figure sono schiacciate in uno spazio limitato che accentua la sensazione di drammaticità. Il paesaggio ha qui un ruolo marginale mentre tutta l'enfasi è incentrata sul Cristo, la cui figura tratteggiata con gusto classico è praticamente perfetta. La tensione è ulteriormente suggerita dal dinamismo dei due soldati in basso, caratterizzati da una grande espressività. La morbidezza del segno e i colori all'apparenza molto moderni non sono del tutto imputabili al genio di Vivarini ma, in larga parte, all'azione del tempo che ha abraso la superficie pittorica rendendola inaspettatamente innovativa per i canoni del pittore da Murano.

"Realtà e simbolo scorrono assieme
in un racconto traboccante
di messaggi allusivi 
"

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La sensazione di "wow" (mi si passi l'espressione da ragazzino) tocca il culmine di fronte all'altare maggiore.
Qui è ospitato il monumentale "Battesimo di Cristo" di Cima da Conegliano del 1494 (immagine in alto).
Di questo quadro sappiamo praticamente tutto. Per San Giovanni in Bragora fu pensato dal genio del pittore trevigiano e a San Giovanni in Bragora è rimasto nei secoli. Fin dalla cornice si intuisce lo scatto modernista di Cima. Il linguaggio è innovativo, ispirato ai contemporanei monumenti funebri lombardeschi, sempre più vicini alle forme classiche dell'arco trionfale romano.

Il dipinto è di una sensibilità pittorica e narrativa che ne fanno uno dei capolavori assoluti del Cima!
La scena è incentrata sulla presenza di pochi personaggi, disposti in un ambiente naturale raffinato e di contagiosa serenità. Fin dalla sua apparizione il dipinto ebbe un grande successo e l'iconografia venne ripresa dal grande Giovanni Bellini, massimo onore per un pittore ancora relativamente giovane come il Cima. Il protagonista è senza dubbio Gesù, ma una posizione di primo piano spetta anche a Giovanni Battista, il santo titolare della chiesa.
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Per un sublime esercizio stilistico, nel dipinto realtà e simbolo scorrono assieme in un racconto traboccante di messaggi allusivi. La valle del Giordano trasfigura nel paesaggio della valle del Piave, tanto amata dal pittore. Il corso del fiume è sereno e puro come le acque del fiume biblico che divennero sante grazie al contatto con il corpo del Salvatore. Il Battista, seppur in posizione sopraelevata rispetto al protagonista, è caratterizzato da severa umiltà. Il braccio ossuto compie un gesto estremamente carico di significati ma non è imperioso e, seppur sottilmente, il Santo sembra indietreggiare per non rubare la scena al Messia.

Al centro Cristo si prende le luci della ribalta! Non c'è dubbio che sia lui la vera fonte di salvezza e di vita. I suoi piedi sono immersi nel fiume ma, a una visione ravvicinata, ci accorgiamo che non sono bagnati. Le acque si sono ritratte, come ci ricorda un passo del Salmo 114 (sulla liberazione degli Israeliti dalla schiavitù d'Egitto), ricordando che il Mar Rosso "si ritrasse e il Giordano si volse indietro" al manifestarsi della potenza di Dio. 
Lo sguardo di Cristo ci guarda senza indugio e invita i fedeli a imitarlo (imitatio Christi) e a convertirsi (laddove ce ne fosse necessità). In alto Dio Padre, attraverso la discesa dello Spirito Santo, consacra la missione del Figlio. Il Cima si impegna qui nella complessa rappresentazione di Dio e sceglie la strada dell'allusione, piuttosto che del realismo. La divinità non è colta con sembianze antropomorfe ma suggerita come una voce proveniente dal cielo (che nessuno in effetti può dire di aver visto con i propri occhi). Dio è una nuvola circondata da una corona di angeli. Anche questi nessuno li ha mai visti perché sono composti della stessa sostanza dell'aria e quindi invisibili ai mortali. Sono i Serafini, rossi perché ardenti d'amore; i Cherubini, turchini cioè dello stesso colore della luce; e i Troni, gialli a rappresentare la giustizia divina. Ecco svelati i cori angelici superiori, che compaiono assieme agli angeli inferiori; questi sì con sembianze umane e collocati alle spalle di Cristo. 

La luce è accecante, imbeve ogni dettaglio del dipinto (a parte il corpo del Battista) e si riversa sui visitatori senza necessità di illuminazione artificiale per risplendere e ammaliarci a più di 500 anni dalla sua rappresentazione.
Chapeau al Cima e al suo enorme talento! 

"Prima di salutarci
ecco a voi un ultimo capolavoro
da San Giovanni in Bragora! 
"

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Il mio discorso rischia di farsi ancora molto lungo. Nella chiesa ci sono due Palma il Giovane, un altro dipinto del Cima (meno efficace del "Battesimo" appena descritto), due dipinti di Leonardo Corona, il Battistero a cui mise mano Alessandro Vittoria (il Michelangelo veneziano) e la lunga storia del coro di Sebastiano Mariani (per lo più andato perduto). Argomenti con meno appeal sul grande pubblico ma di cui parlerò in un prossimo articolo più di nicchia. Anche se, del resto, se sei arrivato a leggere fino a questo punto vuole dire che fai sicuramente parte di quella cerchia di appassionati di arte antica!

Prima di salutarci ecco a voi un ultimo capolavoro da San Giovanni in Bragora!
Il "Cristo Benedicente", ancora una volta di Alvise Vivarini, databile al 1494 (immagine in alto).
​Siamo in Veneto, per chi si fosse confuso. Ma il modello di questa rappresentazione cristologica viene da altre parti d'Italia. Mi riferisco a Antonello da Messina, di cui si legge l'inconfondibile linguaggio. L'iconografia, come la vediamo in questo dipinto, era estremamente ambita soprattutto nell'ambito della devozione privata.

​Non è un quadro di chiesa insomma! Il motivo va ricercato principalmente nel forte impatto emotivo suscitato dall'immagine ravvicinata di Cristo che osserva il fedele. Una rappresentazione forse troppo intensa per trovare giusta collocazione in uno spazio sacro.

Il ritratto di Cristo (trattato quasi fosse un vip del Rinascimento) è ambiguamente sospeso tra astrazione e naturalismo, tra la dimensione divina da cui proviene il protagonista e il realismo della luce laterale che dà consistenza plastica alla figura. L'elemento soprannaturale è suggerito dalla rigida frontalità del ritratto e dalla solennità del gesto assai simile alla staticità delle icone bizantine.

La sensazione è di stordimento! Noi che osserviamo siamo da un lato respinti da un'immagine superiore che suscita distacco emotivo e dall'altro inevitabilmente coinvolti dal movimento della luce che esalta i dettagli troppo umani di Gesù: il volto, i capelli ben pettinati, la barba vagamente incolta, la mano estremamente realistica e le pieghe delle vesti così come si potevano vedere nelle botteghe veneziane del '400.

Ci salutiamo così con un capolavoro che condensa il colore brillante della bottega dei Vivarini (lo ripeto, così attenti a restituirci visivamente la materialità pittorica del vetro di Murano) e il movimento della luce assolutamente e autenticamente rinascimentale!
Grazie per avermi seguito fino a questo punto! Ci ritroveremo presto con nuovi viaggi alla scoperta della grande arte ospitata nei monumenti più autorevoli del nostro paese.

p.s. Per chi volesse leggere un seppur breve approfondimento sulla storia della chiesa e sul suo aspetto esterno, ho scritto un ultimo capitoletto a fine pagina!

"Del passato resta solo il nome:
Bragora"

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​San Giovanni in Bragora è uno degli edifici più antichi di Venezia, fondato nel 829. Ma la leggenda ci riporta ancora più indietro nel tempo: precisamente al 639 quando le genti da Oderzo, in fuga dai temibili Longobardi, abbandonarono la città di terraferma per rifugiarsi nelle calme acque della laguna. Il Vescovo Magno fece allora un incredibile sogno nel corso del quale Dio in "persona" gli ordinò di costruire 8 chiese. Una di queste dedicata a San Giovanni Battista, San Giovanni in Bragora, appunto.

Di quei tempi lontani non rimane quasi nulla, anche perché quando il veneziano Pietro Barbo diventò il nuovo papa decise di ristrutturare la chiesa che prese così le forme di una classica chiesa tardo gotica. I lavori vennero svolti tra il 1464 e il 1505  e la struttura assunse le sembianze con cui si presenta ancora oggi ai nostri occhi.
Del passato resta solo il nome: Bragora, che deriva forse dal greco agorà (piazza) o dal veneziano brago (melma).

La facciata è in mattoni con le forme tanto amate del gotico veneziano, anche se siamo già in pieno Rinascimento. Ma Venezia, si sa, è gelosa delle sue tradizioni e preferisce indugiare in una cultura di transizione piuttosto che aprirsi platealmente al nuovo proveniente da altre aree geografiche.
L'aspetto esteriore segue così l'impianto delle grandi chiese conventuali gotiche, come il più celebre esempio dei Frari, di cui offre una versione semplificata. In alto, sopra al rosone che illumina la navate centrale, si può scorgere una preziosa croce in pietra d'Istria decorata con foglie che risale al precedente edificio bizantino.
Articolo a cura di Daniel Buso
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    Daniel Buso

    Storico dell'arte e direttore artistico di ARTIKA

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