"Uno stile già maturo capace di giocare con i simboli, il mistero e l’inconscio"Una delle primissime opere metafisiche di Giorgio de Chirico fu L’enigma dell’ora. All’interno della tela il pittore mostrava uno stile già maturo capace di giocare con i simboli, il mistero e l’inconscio. L’opera risale all’anno 1910 o 1911, il pittore aveva solo ventitré anni durante la sua realizzazione. Grazie anche a questa tela, de Chirico riuscì a ottenere grande fama tra i suoi contemporanei, esponendo i suoi primi capolavori al Salon d’Automne e al Salon des Indépendants di Parigi. Il pittore inserì nel dipinto uno sfondo composto da una successione di cinque arcate a tutto sesto antistanti un porticato in ombra. Nella parte alta trova spazio una lunga loggia sulla cui parete esterna è appeso un orologio. In basso è presente una fontana quadrangolare con al centro un piccolo zampillo d’acqua. Le figure umane della rappresentazione sono tre: un uomo vestito di bianco in primo piano; un secondo personaggio in ombra sotto il secondo arco da destra; un terzo personaggio nel loggiato. Le grandi aperture rette da semicolonne del corridoio superiore, infine, lasciano intravedere un cielo azzurro e terso che controbilancia la solennità data dal gioco di luci e ombre che oscura e illumina la piazza. L’enigma, a cui allude il titolo dell’opera, risiede proprio nella difficoltà da parte dello spettatore di trovare una correlazione tra l’ora segnata dall’orologio e la luce nella piazza. Le lancette indicano infatti pochi minuti prima delle tre del pomeriggio. Il sole sembra tuttavia aver superato lo zenit (dovrebbero essere quindi mezzogiorno). Manca dunque una correlazione coerente tra gli elementi inseriti nella tela. Ciò suggerisce che la scena sia in realtà la raffigurazione di un sogno in cui il tempo si fa sospeso e ogni soggetto non è legato all’altro da rapporti di causa-effetto. "L'aspetto piscologico e soggettivo del tempo"L’opera di de Chirico ispirò a Dalì il celebre capolavoro La persistenza della memoria. In questo dipinto gli orologi sono deformati rispetto la loro forma geometrica perché non rappresentano il tempo lineare ma, come per de Chirico il suo aspetto psicologico e soggettivo. All’interno della sua autobiografia, La mia vita segreta, Salvador Dalì parlò a proposito di come era nata la sua opera. Il pittore aveva un leggero mal di testa. Pur volendo andare al cinema, all’ultimo momento decise di rimanere a casa. Durante la cena mangiò un camembert, formaggio francese dal sapore molto intenso. Dopo che Gala se ne era andata, Dalì rimase a lungo a meditare sul problema filosofico posto da quel formaggio. Si recò quindi nel suo atelier per gettare un ultimo sguardo sul dipinto a cui stava lavorando. Prima di spegnere la luce ebbe l’intuizione: "Due orologi molli uno dei quali pendeva miserevolmente dal ramo dell’ulivo. Nonostante il mal di testa fosse ora tanto intenso da tormentarmi, preparai febbrilmente la tavolozza e mi misi al lavoro. Quando, due ore dopo, Gala tornò dal cinema, il quadro, che sarebbe diventato uno dei più famosi, era terminato". Il paesaggio è deserto e privo di vegetazione, l’unica cosa che notiamo sono tre orologi dalla consistenza liquefatta. Da questo il nome di "orologi molli" con cui l'opera passò alla storia. Per info sulla mostra di de Chirico a Conegliano, premi il pulsante in basso
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"Il simbolo della tragedia afghana"La fotografia più celebre di Steve McCurry rappresenta l’immortale immagine della ragazza afgana. L’istantanea venne realizzata in Pakistan, vicino Peshawar, precisamente dentro un campo profughi. Pubblicata nel giugno del 1985, la ragazza afghana è stata il volto di molte campagne di solidarietà, promosse, ad esempio, da Amnesty International. La fotografia che Steve McCurry scattò alla giovane ragazza, molti anni prima di conoscere il suo nome, è diventata simbolo della tragedia afghana e della dignità con cui il suo popolo ha affrontato la guerra e l’esilio. Un’immagine catturata in uno dei luoghi più inospitali della terra, ovvero uno spazio per i rifugiati. Rappresentando questo luogo di dolore, McCurry ha inteso sensibilizzare il pubblico nei confronti delle atrocità che vi si commettono e delle condizioni precarie in cui versa una parte dell’umanità. La fotografia ha una genesi quasi casuale: un giorno, passeggiando per il campo Nasir Bagh, McCurry sentì delle giovani voci provenire da una tenda adibita a scuola e si avvicinò chiedendo all’insegnante il permesso di immortalare con la sua macchina fotografica la lezione in corso. Ottenuto il permesso, il fotografo venne subito colpito dagli occhi magnetici di un’allieva che rimaneva un po’ defilata. “Mi accorsi subito di quella ragazzina. Aveva un’espressione intensa, tormentata e uno sguardo incredibilmente penetrante – eppure aveva solo dodici anni. Siccome era molto timida, pensai che se avessi fotografato prima le sue compagne avrebbe acconsentito più facilmente a farsi riprendere, per non sentirsi meno importante delle altre”. Seppur concepita e realizzata in pochi secondi, l'immagine risulta perfetta e rivela immediatamente la capacità di McCurry di stabilire un intenso, seppur effimero, rapporto con i propri soggetti. Dopo la pubblicazione della foto sulla copertina del National Geographic, McCurry racconta di come successe il finimondo in redazione. “Sono stati sommersi dalle lettere. Tutti volevano sapere chi era, aiutarla, mandare soldi, adottarla, uno la voleva persino sposare.” "I suoi occhi continuavano a trasmettere tutta la forza interiore del soggetto"La ragazza, di nome Sharbat Gula, rimase sconosciuta per oltre 15 anni dalla pubblicazione dello scatto sulla rivista, finché il fotografo non riuscì a ritrovarla.
Partito per una spedizione con una squadra del National Geographic, nel 2002 giunse in Pakistan. Il campo profughi di Peshawar stava per essere demolito, McCurry aveva un’ultima possibilità di rivedere la ragazza. Iniziò la ricerca mostrando la sua foto ad alcuni anziani del campo e, una volta sparsa la voce, diverse donne arrivarono affermando di essere la bambina del ritratto. Dopo alcuni giorni andati a vuoto la spedizione stava per prendere la via del ritorno, finché l’arrivo di uomo stravolse i piani. Quest’ultimo assicurava che Sharbat era viva, si era sposata ma era tornata da diversi anni in Afghanistan. Così, dopo un lungo e pericoloso viaggio, McCurry tornò nel paese ancora in guerra e rivide la ragazza con la stessa carica emotiva con cui l’aveva lasciata. “La sua pelle è segnata, ora ci sono le rughe, ma lei è esattamente così straordinaria come lo era tanti anni fa” disse in un’intervista al The Guardian “Le spiegai che la sua immagine aveva commosso moltissime persone, ma non sono sicuro che la fotografia o il potere della sua immagine significassero davvero qualcosa per lei o che fosse in grado di capirli fino in fondo”. Nonostante l’aspetto di Sharbat fosse completamente mutato, anche a causa delle dure prove che la vita in guerra le aveva riservato, i suoi occhi continuavano a trasmettere tutta la forza interiore del soggetto. Steve McCurry fu molto riconoscente alla donna che gli aveva donato fama internazionale. Egli infatti contribuì ad aiutarla in molti modi, ad esempio fornendo a lei e al marito i mezzi per effettuare il pellegrinaggio alla Mecca. “Era il sogno più importante della loro vita e senza quella foto non si sarebbe mai realizzato. È stato bello poterle rendere almeno in parte ciò che le dovevo”. Articolo a cura di Daniel Buso Per info sulla mostra di Pisa clicca il pulsante qui in basso. "La morte di Floyd è divenuta il simbolo della violenza sistematica della polizia"Una delle sezioni della mostra American Beauty. Da Robert Capa a Banksy affronta le condizioni degli afroamericani negli Stati Uniti, iniziando dai movimenti civili degli anni Sessanta fino ai giorni nostri. Nel 2013 ha iniziato a circolare l'hashtag #BlackLivesMatter, traducibile in “le vite delle persone nere contano”. Dall'hashtag ha preso il via un movimento per i diritti civili di grande attualità. Il Black Lives Matter si è sviluppato all'interno della comunità afroamericana statunitense, in reazione a svariati omicidi di persone nere da parte delle forze di polizia e, in particolare, contro l'assassinio (rimasto impunito) del diciassettenne Trayvon Martin. I sostenitori si sono scagliati, più in generale, contro le politiche discriminatorie ai danni della comunità nera. A partire dal 2020, il video del brutale arresto di George Floyd, culminato nell'omicidio, ha suscitato reazioni internazionali. La morte di Floyd è divenuta il simbolo della violenza sistematica della polizia, chiaro sintomo di un razzismo ancora endemico negli Stati Uniti. L'episodio è stato seguito da un'ondata di proteste senza precedenti in tutto il mondo, rendendo il Black Lives Matter un movimento internazionale. Il presidente Joe Biden ha parlato di “razzismo strutturale”, riportando l'attenzione su un tema che poteva sembrare superato. Il dibattito, negli ultimi tre anni, si è allargato portando l'attenzione sulle vite di tutti gli immigrati in Occidente, fino alla discussione sulla restituzione delle opere d'arte ai popoli saccheggiati durante il periodo coloniale. Tali riflessioni non sono chiaramente inedite nella società americana. L'intera storia del paese è attraversata da contraddizioni a sfondo etnico, spesso rimaste irrisolte. I frequenti casi di brutalità e uso della forza da parte delle forze dell'ordine statunitensi determinarono la nascita del movimento per i diritti civili già a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso. La novità nell'episodio dell'omicidio di Floyd sta nel medium con cui è stato diffuso: un video su YouTube. La potenza pervasiva del digitale ha determinato una visibilità del fenomeno impensabile nei decenni precedenti. "La marcia di Selma"La fotografia di Steve Schapiro, esposta in mostra, ci porta nel 1965, nel cuore dell'evento che cambiò la storia dei diritti civili negli Stati Uniti. Schapiro, fotografo newyorkese fedele alla poetica di Cartier-Bresson, fu un osservatore molto attento delle rivendicazioni delle minoranze, impiegando spesso il proprio medium per il racconto delle manifestazioni a sfondo politico. Il 7 marzo 1965 si tenne la prima marcia che dalla cittadina di Selma tentò di arrivare a Montgomery in Alabama. Seicento persone, tutte afroamericane, manifestarono in modo pacifico per chiedere il diritto di voto e la fine della segregazione razziale. Il corteo fu vittima di una violenta carica della polizia. Le immagini degli scontri indignarono il mondo e convinsero il presidente Lyndon Johnson a promulgare la legge sul diritto di voto per i neri. La marcia venne organizzata da Martin Luther King. Nonostante gli scontri, il leader del movimento per i diritti civili della minoranza afroamericana ne organizzò in seguito altre due. Con l'ultima, il 25 marzo del 1965, riuscì a radunare 25 mila persone che raggiunsero il palazzo del governatore dell'Alabama dove King pronunciò uno dei suoi più celebri discorsi: “How long? Not long”. Obama nel 2015 tornò a Selma e propose a sua volta un emozionante discorso. Queste alcune delle parole pronunciate: “Un errore comune è pensare che il razzismo sia stato sconfitto, che il lavoro iniziato dagli uomini e dalle donne che erano presenti qui a Selma sia concluso, e che ogni tensione razziale rimasta sia frutto di situazioni contestuali. Sappiamo che la marcia non è ancora finita, che la battaglia non è ancora stata vinta”. "Fighting Shirley"Il fotografo Maurice Sorrell spese buona parte della sua carriera nello sforzo di catturare la storia del movimento per i diritti civili nel profondo sud. Non era insolito per Sorrell trovarsi di fronte a folle inferocite e cani poliziotto o essere esposto a gas lacrimogeni mentre fotografava i leader dei diritti civili. Tra questi un posto di primo piano spetta a Shirley Chisholm, la prima donna afroamericana ad essere eletta nel Congresso americano.
Nata a Brooklyn negli anni Venti, Chisholm decise, fin dai tempi del college, di intraprendere la carriera politica. “Fighting Shirley”, così la chiamavano al Congresso, riuscì a introdurre più di 50 atti legislativi a sostegno dell'uguaglianza razziale e di genere, della condizione dei poveri e per la fine della guerra del Vietnam. La discriminazione, tuttavia, le impedì di partecipare alle primarie del Partito Democratico del 1972. Le fu vietato di prender parte ai dibattiti televisivi e, a seguito di una azione legale, le fu concesso di fare un solo discorso. Riuscì ad ottenere il 10% di voti, nonostante una campagna sottofinanziata e le costanti polemiche di politici e media americani. "Al centro del centro del mondo"La casa di Giorgio de Chirico occupa i tre piani superiori del seicentesco Palazzetto dei Borgognoni al n. 31 di piazza di Spagna a Roma. L’artista visse qui gli ultimi trent’anni della sua vita, insieme alla seconda moglie Isabella Pakszwer Far che continuò ad abitarvi fino alla sua scomparsa. Arrivato a Roma da Firenze nel 1944, dopo un lungo girovagare tra diverse città europee e un soggiorno importante a New York, de Chirico risiedette definitivamente nella casa di piazza di Spagna dal 1948, all’età di sessant’anni. L’abitazione è collocata in una posizione “strategica”, nel cuore di quello che fu considerato il centro culturale e artistico della città fin dal Seicento – con gli atelier di via Margutta e via del Babuino, le gallerie, lo storico Caffè Greco in via Condotti, l’affascinante scenario di Trinità dei Monti e di Villa Medici –, e rappresentò per l’artista maturo il luogo ideale dove stabilirsi e continuare a lavorare. Nel 1945 così scriveva l’artista a proposito di un suo trasferimento nella capitale: “Dicono che Roma sia il centro del mondo e che piazza di Spagna sia il centro di Roma, io e mia moglie, quindi, si abiterebbe nel centro del centro del mondo, quello che sarebbe il colmo in fatto di centrabilità ed il colmo in fatto di antieccentricità”. Grazie al lascito di Isabella Far e al restauro degli ambienti e degli arredi, eseguito con rigore filologico, oggi casa de Chirico è accessibile al pubblico. Inaugurata il 20 novembre 1998, ventennale della scomparsa del Maestro, offre un’occasione esclusiva per avvicinarsi al mondo privato dell’artista e accedere al suo originale immaginario artistico, in un sorprendente e suggestivo intreccio tra arte e vita. "Una sontuosa living gallery"I sontuosi ambienti del piano principale immergono in una visione rubensiana di grandi saloni di stile seicentesco, con un cospicuo numero di opere, alcune in preziose cornici dorate, tende damascate color rosso (realizzate ex novo in base a quelle originali), argenti, putti in legno, tavolini di marmo e poltroncine stile Luigi XVI. Concepita così come una suntuosa living gallery, questa rappresenta la parte più vitale della casa, vivace luogo di incontri e ricevimenti.
Dipinti e sculture sono esposti secondo il progetto espositivo della Fondazione (che viene rinnovato con una cadenza semestrale) con l’obiettivo di far conoscere al pubblico i diversi soggetti e temi elaborati dal Maestro, lungo un percorso affascinante: dalla selezione di opere degli anni Quaranta e Cinquanta – tra cui alcuni mirabili d’apres dai Grandi maestri, ritratti di Isabella e autoritratti – passando per il particolare corpus delle “Vite silenti” esposte nella sala da pranzo, fino alla produzione pittorica degli ultimi dieci anni della sua carriera, il periodo cosiddetto “Neometafisico”, visibile nella parte nuova della casa, acquistata verso la fine degli anni Sessanta. Le sculture, come presenze silenziose disseminate nei vari ambienti, raccontano i miti classici reinterpretati secondo l’immaginario dechirichiano o i personaggi della sua personale mitografia. Salendo le scale che conducono al secondo piano, si raggiungono gli ambienti più intimi della casa: le stanze da letto e lo studio dell’artista. Quest’ultimo ambiente rappresenta senza dubbio il luogo più suggestivo della casa. La luce che filtra dall’ampia apertura del soffitto si posa sul cavalletto del Pictor Optimus e sui numerosi oggetti del mestiere utilizzati dal Maestro e lasciati lì come pronti per il prossimo lavoro. Diversi modelli in gesso di statue antiche, gladiatori e cavalli, sovrastano la biblioteca personale dell’artista, ricca di preziose monografie – da Watteau a Courbet, Delacroix, Rubens e molti altri. Un’ampia terrazza costituisce l’ultimo piano della casa, il luogo dove de Chirico amava sostare durante il giorno per ammirare lo spettacolo di Roma e della Natura. Infine, negli ambienti in cui attualmente sono presenti gli uffici della Fondazione – un tempo la cucina di casa de Chirico – è ospitata la biblioteca, costituita da numerose edizioni degli scritti dell’artista, cataloghi di mostre monografiche e collettive, saggi e monografie, consultabili su richiesta. "58 mila americani e circa 3 milioni di vietnamiti persero la vita durante la terribile e sanguinosa guerra del Vietnam"58 mila americani e circa 3 milioni di vietnamiti persero la vita durante la terribile e sanguinosa guerra del Vietnam. Un conflitto inspiegabile, lungo vent'anni, capace di scatenare la più potente ondata pacifista del mondo. Moratorium to end the war in Vietnam fu una marcia capace di mobilitare e unificare studenti, lavoratori, artisti e intellettuali degli anni Sessanta. Durante le proteste nacquero i primi movimenti di contro-informazione, che segnalarono l'uso del napalm da parte dei soldati americani, gli abusi e i massacri che sconvolsero l'opinione pubblica. La guerra in Vietnam diede, per ironia della sorte, un impulso fondamentale alla più importante rivoluzione culturale dell'occidente, quella del ‘68. Un movimento capace di porsi contro l'intero sistema della cultura borghese e che si estese a tutte le forme di comportamento: dal vestiario, al linguaggio, passando per le relazioni sessuali e familiari, fino al rinnovamento delle arti. Da lì iniziò un cammino di speranza, di sogni, di emancipazione, oltre che un percorso di riscoperta dell’individuo e della sua sensibilità. I due fotografi, Stephen Shames e Jill Freedman, mostrano come l'America fosse spaccata in due dalla guerra in Indocina. Da un lato i pacifisti e il loro ideale di libertà, dall'altro i patrioti che salutavano enfaticamente i propri concittadini mandati dall'altro lato del mondo a difendere illusoriamente la propria civiltà contro la minaccia comunista. "Spettatore consapevole dell'influenza che il suo paese voleva esercitare in Vietnam, Indiana decise di esprimersi attraverso l'arte, con un gesto provocatorio"L'artista Pop Robert Indiana è indelebilmente impresso nell'immaginario collettivo per la scritta LOVE, declinata in un'infinità di rappresentazioni e supporti artistici.
Nel 1997 lavorò ad un portfolio di opere intitolato “American Dream”, rielaborando opere serigrafiche prodotte nei precedenti trent'anni di carriera. “New Glory Banner” vide la luce per la prima volta nel 1961. Gli elementi decorativi a stelle e strisce della bandiera americana cessano qui di essere un motivo puramente astratto per acquisire connotazioni politiche. Siamo nel 1961, gli Stati Uniti e in particolare l'amministrazione Kennedy stavano preparando una delle operazioni militari più disastrose nella storia del paese: l’invasione del Vietnam. L'afflusso massiccio di truppe e mezzi bellici sarebbe iniziato l'anno successivo, ma le ingerenze americane in Indocina erano iniziate già pochi mesi dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Spettatore consapevole dell'influenza che il suo paese voleva esercitare in Vietnam, Indiana decise di esprimersi attraverso l'arte, con un gesto provocatorio. Le stelle di questa bandiera capovolta sono 51. Ai 50 stati che la compongono, l'artista propose di aggiungerne un altro: il Vietnam, appunto. Dato l'interesse che i suoi leader manifestavano per quel remoto paese, poteva esserci una soluzione migliore di una annessione in piena regola? "Il lato insolito e misterioso dietro l'apparente banalità della vita quotidiana"La Metafisica non fu un movimento artistico; essa può definirsi, più correttamente, come una tendenza della pittura italiana del secondo decennio del Novecento, l’esito di un’operazione estetica, la manifestazione di un’espressione pittorica maturata nell’alveo della ricerca di de Chirico. Il termine “metafisica”, applicato alla pittura, può essere letto in senso letterale, come al di là della fisica. Secondo de Chirico, infatti, l’arte non doveva avere alcun legame con la realtà, poiché il suo scopo era scoprire la via alternativa per svelare il lato insolito e misterioso che si cela dietro l’apparente banalità della vita quotidiana. “Perché un’opera d’arte sia veramente immortale”, scrisse de Chirico, “è necessario che esca completamente dai confini dell’umano: il buon senso e la logica la danneggiano”. Il concetto “metafisico” ebbe origine in filosofia. Giorgio de Chirico intese esprimere l’idea di un tempo “circolare” legata all’“eterno ritorno” delle cose e degli avvenimenti, attraverso l’influenza del pensiero di Schopenhauer e Nietzsche. La sua pittura esprime il “grande vuoto” della realtà ultima, liberata dalle sovrastrutture e perciò terrificante. Le piazze, le torri e gli oggetti sono collocati in un posto senza tempo, come se fossero sospesi nel vuoto, illuminati da una luce fredda e impetuosa proveniente da una fonte invisibile. "Schopenhauer e Nietzsche per primi insegnarono il profondo significato del non-senso della vita e come tale non-senso potesse venire trasmutato in arte, anzi dovesse costituire l’intimo scheletro d’una arte veramente nuova, libera e profonda", disse de Chirico. "Ogni cosa, animata o inanimata, ha un suo essere metafisico"I primissimi quadri di de Chirico vennero prodotti sulla scia dell’ispirazione generata dall’incontro con le opere simboliste del pittore svizzero Arnold Böcklin e dell’artista tedesco Max Klinger, a Monaco di Baviera. Attraverso figure mitologiche, il pittore ambiva alla creazione di visioni sorprendenti del mondo e della natura. A Monaco di Baviera e, successivamente, a Firenze, de Chirico lesse varie opere di Nietzsche, pubblicate a fine Ottocento, come Ecce homo, La Nascita della tragedia e Così parlò Zarathustra. Il filosofo tedesco diventò così parte integrante della sua riflessione pittorica. Due aspetti su tutti lasciarono un segno indelebile: lo sguardo metafisico delle cose quotidiane del mondo e la percezione del tempo sospeso e circolare, noto come l’eterno ritorno. Ogni cosa, animata o inanimata, secondo il pensiero nietzschiano, ha un suo essere metafisico, un suo linguaggio. Ogni cosa può essere intesa psicologicamente cambiando prospettiva o punto di vista. Ispirato da tali pensieri filosofici, de Chirico ebbe le sue prime “rivelazioni” a Firenze, nell’autunno del 1910. Apparirono, per la prima volta nella sua mente, immagini trasfigurate della realtà capaci di rivelare all’artista l’essenza nascosta delle cose e dell’ambiente circostante. Visita la mostra a Palazzo Sarcinelli di Conegliano
Info su www.artika.it "Un duplicato del corpo in negativo"Una caratteristica costante di Vivian Maier, destinata a diventare una sorta di firma nei suoi autoritratti, fu la sua ombra. L'ombra, quella silhouette la cui caratteristica distintiva è l'attaccamento al corpo. Quel duplicato del corpo in negativo, ritagliato dalla realtà, ha l'abilità di rendere presente ciò che è assente. Sebbene l'ombra attesti l'esistenza di ciò a cui si riferisce, essa allo stesso tempo cancella la sua presenza. All'interno di questo dualismo, Vivian Maier si destreggiava con una versione di sé sul confine tra la sparizione e l'apparizione del suo doppio. "L'ombra è la forma più vicina alla realtà"Secondo Plinio il Vecchio, la pittura ebbe origine quando una fanciulla dipinse la silhouette del suo amato su una parete. Il grande scrittore romano descrisse l'episodio leggendario nella Naturalis Historia. Secondo il mito, la giovane figlia di un vasaio tratteggiò con una linea l'ombra del volto del suo innamorato proiettata sul muro dal lume di una lanterna. Su quelle linee il padre impresse l'argilla riproducendone il volto e dando vita al primo ritratto nella storia dell'arte. Vivian Maier adottò questa tecnica utilizzando la proiezione della propria silhouette. Si tratta probabilmente della più sintomatica e riconoscibile tra tutte le tipologie di ricerca formale da lei utilizzate. L’ombra è la forma più vicina alla realtà, è una copia simultanea. È il primo livello di una autorappresentazione, dal momento che impone una presenza senza rivelare nulla di ciò che rappresenta. "Il segno della sua intrusione nella privacy del soggetto"Molti scatti di Vivian Maier sono ravvicinati. Tale prossimità le consentiva una rappresentazione molto intima dei suoi soggetti. Si palesa così una componente essenziale del suo atteggiamento: la faccia tosta, attitudine che le dava la possibilità di fotografare le sue figure spesso in situazioni private. Uomini e donne addormentati sulle panchine, persone rilassate su manti erbosi, semplici passanti più o meno famosi, sono alcuni esempi di soggetti amati da Vivian Maier. Questa passione non fa che avvicinare il suo stile a quello dei grandi fotografi francesi della strada. Vivian non soltanto coglieva l’attimo in composizioni divertenti, ma si muoveva ai margini della composizione, passando spesso inosservata. L’ombra dell’artista, nella parte bassa della composizione, è il segno della sua intrusione nella privacy del soggetto. La chiara immagine della fotografa che si intromette ed instaura un rapporto con la donna stesa a prendere il sole (probabilmente del tutto inconsapevole di essere vista). Visita la mostra a Palazzo SarcinelliHai tempo fino al 11 giugno 2023.
"Una bambinaia, una governante, una fotografa"Chi era Vivian Maier? Una bambinaia, una governante, una fotografa. Della sua personalità è assai difficile fornire un’immagine coerente. Il suo carattere e la sua vita sono stati raccontati solo sulla base del modo in cui si è autoritratta. Maier nacque da madre francese e padre austriaco nel quartiere del Bronx di New York. All'età di quattro anni viveva con la madre assieme a Jeanne Bertrand, una pluripremiata fotografa ritrattista, mentre suo padre aveva già abbandonato il nucleo familiare. La ritrattistica da studio della giovane Jeanne Bertrand era del tutto simile all’estetica di Julia Margaret Cameron, tra le prime fotografe donne nella seconda metà dell’Ottocento. Nel 1932 Marie, la madre di Vivian, non riusciva a trovare lavoro in America e fu perciò costretta a ritornare in patria. La nonna Eugénie pagò loro il viaggio da New York alla valle Champsaur in Francia. Vivian Maier parlava solo inglese e fu costretta a confrontarsi con i contadini francesi a soli sei anni. Nel 1933 Marie si fece ritrarre assieme alla figlia. È una delle primissime immagini note di Vivian Maier. Sedute di fronte ad una fattoria, le due protagonisti dello scatto non sorridono. La posa e l’espressione comunicano una sensazione di imbarazzo. Nel 1938 Marie Maier si preparava a tornare negli States. Vivian aveva dodici anni. Il transatlantico SS Normandie le fece sbarcare a New York. L’adolescenza di Vivian Maier coincise con la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1945 aveva ormai compiuto vent’anni. Già dal 1943 la sua vita si svolgeva separatamente dalla madre. Vivian abitava nel Queens presso una coppia sposata che accoglieva bambini in affido: i Lindenberger, amici di nonna Eugénie. Negli stessi anni lavorava presso una fabbrica di bambole, posto che prefigurava la sua futura professione di bambinaia. Nel 1950 fece un lungo viaggio in Francia per rivendicare (e vendere) le proprietà di famiglia che le erano state date in eredità. Durante il suo viaggio nel Vecchio Mondo l'artista realizzò le sue prime fotografie, circa tremila immagini. "L'elegante viaggiatrice era divenuta una babysitter vestita da casalinga"Nell’estate del 1951 Vivian viveva a Southampton, Long Island, in un ambiente benestante. Iniziava la sua carriera di tata e governante. La trasformazione si era compiuta: l’elegante viaggiatrice era divenuta una babysitter vestita da casalinga. Alla fine dell’estate Vivian andò a Manhattan. I suoi scatti sono ravvicinati e questo le consentiva una rappresentazione molto intima dei suoi soggetti. Emerse allora la sfacciataggine di Vivian Maier, capace di fotografare le sue figure spesso in situazioni private, correndo perciò anche qualche rischio. Nel 1952 Vivian Maier aveva un nuovo lavoro di bambinaia a Manhattan. Da questo momento le strade di New York diventarono le sue strade. La nuova base era l’Upper West Side. L’appartamento in cui viveva, elegantemente arredato, si affacciava su Riverside Park lungo la 106ª Strada. In questo periodo si dotò della sua prima Rolleiflex e acquistò un flash. Fu uno straordinario periodo di crescita artistica, favorito da un lavoro (quello di bambinaia) che le dava l’opportunità di peregrinare in giro per la città. Nel 1956 lasciò la costa orientale per Chicago, dove avrebbe trascorso la maggior parte del resto della sua vita lavorando sempre come tata e governante. Origini francesi, vita da newyorchese. Maier non rinnegò mai le sue origini, annotando spesso descrizioni in francese sulle sue stampe e sui suoi taccuini e dichiarò sempre ai suoi conoscenti la passione per la Grande Mela. La fotografa realizzò le sue opere senza sosta dai primi anni ’50 a New York fino almeno agli anni ’90 a Chicago. "Un tesoro destinato a divenire inestimabile"Il 25 novembre 2008 Vivian Maier si alzò dalla sua panchina preferita sul lago Michigan nei pressi di Chicago e cadde. Venne trasportata in ospedale, sebbene fosse riluttante, e lì trascorse gli ultimi cinque mesi di vita. In questo breve lasso di tempo il riconoscimento dell’importanza delle sue foto conobbe un’accelerazione. John Maloof, il suo scopritore, aveva iniziato a pubblicare le sue immagini e la richiesta delle stampe aumentava senza sosta.
Vivian Maier morì il 21 aprile del 2009, quando un nutrito gruppo di appassionati di fotografia iniziava già ad esaltare la sua opera su blog e forum online. Vivian Maier è stata ricordata da chi la conobbe come una donna sola, sostenuta da una trascinante passione per l’arte fotografica. Grazie a questo suo grande amore, consegnò alla storia una mole impressionante di opere. Tuttavia, non realizzò mai una mostra d’arte mentre era in vita. Le sue opere iniziarono a divenire di dominio pubblico solo a partire dal 2007. Un tesoro destinato a divenire inestimabile: più di centomila negativi, migliaia di fotografie stampate in ogni formato, scatole Kodak con centinaia di diapositive e pellicole cinematografiche; oltre che più di mille rullini non ancora sviluppati. Da questo momento la storia cambiò il proprio corso. L’anonima bambinaia di Chicago era pronta per diventare Vivian Maier, autorevole rappresentante della street photography. "Il confine tra pubblico e privato si annulla"Nel 1978, all’età di 28 anni, Steve McCurry lascia la posizione di fotografo presso un giornale provinciale di Filadelfia per dar vita ad uno dei suoi più grandi sogni: visitare l’India. Il fotografo acquista duecento rullini e lascia gli Stati Uniti. L’inizio non è dei più esaltanti e, come ci racconta lui stesso, a sole due settimane dall’arrivo, “in un posto chiamato Kodaikanal, nel Sud, mi presi l’amebiasi e inoltre dovetti sottopormi a una serie di iniezioni antirabiche, dopo essere entrato in contatto con un cane idrofobo”. Di questo primo viaggio poco rimane poiché le imprese maggiori di fine anni ’70 si concentrano nella documentazione di Afghanistan e Pakistan. Nel 1983 torna però nel subcontinente con lo scopo di documentare il monumentale sistema ferroviario dell’Asia meridionale. Ne deriva un resoconto preciso ed emozionante della vita quotidiana in India, dove la maggior parte delle attività avviene in pubblico: come mangiare, dormire e lavarsi. La serie di immagini è un grande ritratto di questa complessa società in cui il confine tra pubblico e privato si annulla, un paese in cui “i poveri, ma anche quelli che se la cavano un po’ meglio, tendono a vivere in strada”, sottolinea McCurry. Il suo racconto per immagini dell’India non è però puramente romantico, poiché non trascura di parlarci dei profondi contrasti e delle iniquità che ancor oggi costellano quel mondo lontano. Nel tempo l’India è diventata una delle nazioni più frequentate da McCurry, protagonista di preziose serie documentarie pubblicate da prestigiose riviste internazionali. "Lo sguardo esprime appieno lo spirito della sua gente"L’immagine qui pubblicata, scattata nel 2009, rappresenta una bellissima bambina nomade incontrata dal fotografo in Rajasthan, nell’India del Nord, dove egli svolgeva un prezioso lavoro di documentazione delle popolazioni nomadi.
L’etnia di appartenenza è Rabhari, nomadi principalmente dediti alla pastorizia. Essi viaggiano incessantemente alla ricerca di cibo per i loro animali. McCurry ci racconta di come i Rabhari saranno presto costretti a trasferirsi presso i centri urbani, finendo così per perdere la propria affascinante alterità. Il Rajasthan si sta trasformando in un territorio inospitale per i nomadi sia a causa del cambiamento climatico che a seguito della massiccia opera di edificazione e industrializzazione. La piccola protagonista si chiama Shakti e sembra accoglierci nella sua piccola casa-tenda. Lo sguardo esprime appieno lo spirito della sua gente, orgogliosa e indipendente. Le qualità pittoriche di questa immagine sono impressionanti, sia dal punto di vista della luce che della composizione, ma lo è altrettanto il senso di empatia e di comprensione che il fotografo riesce a suscitare nello spettatore di questa scena così toccante. Riprendendo le parole di Anthony Bannon, direttore della George Eastman House di New York, si può dire che “l’immagine in oggetto è perfettamente in linea con i suoi obiettivi artistici: rappresentare, attraverso le vite degli altri, questioni di portata universale, che ci parlino della condizione umana”. Articolo a cura di Daniel Buso Per info sulla mostra in corso a Pisa, clicca il link qui in basso "Le feste roboanti nella discoteca più famosa d'America"Tra il 1977 e il 1981, Allan Tannenbaum realizzò una serie di 36 fotografie dedicate al memorabile Studio 54. Gente comune, semplici curiosi, giornalisti, travestiti e, ovviamente, le star del momento affollano i suoi scatti delle feste roboanti nella discoteca più famosa d’America. Mick Jagger, Liz Taylor e l’onnipresente Andy Warhol, che per tutta la sua carriera artistica non mancò mai di presenziare ai party più in voga nella metropoli statunitense. Andy Warhol fu il protagonista assoluto della cultura Pop, ambito in cui trovò un posto di primo piano proprio l’iconico Studio 54. La struttura aprì nel 1977 e divenne il club più famoso della storia, la prima grande discoteca che sarebbe stata imitata in tutto il mondo in migliaia di cloni mai così ben riusciti. Caratteristiche principali del club erano le provocazioni e la stravaganza delle serate proposte. L'intento dei proprietari era infatti quello di dare vita ogni sera alla “festa più grande del mondo”, nonché quello di scuotere il pensiero dei benpensanti a Manhattan. Nel locale si trovavano sempre musica ad altissimo volume, scenografie allusive e serate che ogni sabato prevedevano sorprese o stravaganze inedite. Lo Studio 54 si distinse fin da subito come un luogo in cui ciascuno poteva essere protagonista a prescindere dal ceto di appartenenza, trovandosi fianco a fianco ad esponenti del jet set internazionale. La giornalista Marjorie Daphnis, che riuscì ad entrare nella discoteca nel 1979, raccontò che all'interno del club era permesso ogni tipo di eccesso. Lo Studio 54 fu tra le prime discoteche a adottare una selezione sistematica all'ingresso, nota per essere straordinariamente rigida e soggettiva, in base all'aspetto estetico e al gusto nel vestire. Andy Warhol imputò lo strepitoso successo del locale al suo essere “una dittatura all'ingresso e una democrazia sulla pista da ballo”. Il club chiuse i battenti nel 1986, Warhol morirà pochi mesi dopo. Con la loro fine si avviò così al tramonto una stagione culturale indimenticabile. Nel 1977 gli Stati Uniti stavano facendo pace con i figli dei fiori, il presidente Carter aveva deciso di perdonare i disertori della guerra del Vietnam, l’Urss e gli Usa erano concentrati nella conquista dello spazio e nella Grande Mela veniva inaugurato lo Studio 54, il 26 aprile.
Pochi giorni dopo, precisamente il 2 maggio, si tenne già il primo dei tanti party destinati a passare alla storia. Fuori dal locale c’era la solita folla che sperava di entrare nel tempio della musica dance. Ma quella sera, nelle prime ore, all’interno del locale ebbero il permesso di entrare solo 20 selezionatissime persone per festeggiare il compleanno di Bianca Pérez-Mora Macìas, la moglie di Mick Jagger dei Rolling Stones. A organizzare la festa ci pensò lo stilista Halston, il couturier più chic d’America. Bianca compiva 30 anni e al mixer prese posto l’esordiente Nick Siano, considerato il padre indiscusso di tutti i deejay. Lui stesso ricorda il particolare inizio di serata in cui fu chiamato ad intrattenere 20 persone in un locale che ne poteva contenere quasi 3000. Nella foto di Allan Tannenbaum, oltre a Halston e a Bianca vediamo il produttore Jack Haley, Liza Minelli e Andy Warhol. Nel mezzo dei festeggiamenti accadde qualcosa destinato a rimanere memorabile: la festeggiata apparve dal nulla in groppa a un cavallo bianco accompagnata da un nugolo di fotografi. Una delle immagini più iconiche dell’era della disco. |
Daniel BusoStorico dell'arte e direttore artistico di ARTIKA Archivi
Gennaio 2024
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