"Anubi, il creatore delle mummie"Anubi, dio dalla forma di canide comunemente identificato con uno sciacallo, era una antichissima divinità funeraria, protettrice delle necropoli e dei defunti. Gli fu dedicata un'intera città, che i greci chiamarono Cynopolis (“città dei cani”). Dio della mummificazione, Anubi accompagnava i morti nell’aldilà, e venne perciò assimilato dai greci a Ermes Psychopompos, “che accompagna le anime”.
Anubi è tradizionalmente rappresentato con il corpo umano e la testa di un cane o sciacallo. Sebbene il colore nero che lo caratterizza possa sembrare riferirsi alla realtà fisica dell'animale, in realtà è un simbolo di rinascita e rigenerazione. Nell'antico Egitto, il nero era associato al limo fertile del Nilo, che dopo le inondazioni dava nuova vita alla terra. Per questo motivo, Anubi, come dio funerario, era simbolo della morte, ma anche della speranza di rinascita. Inizialmente, prima che Osiride diventasse la divinità principale legata all'aldilà, Anubi ricopriva il ruolo di dio funerario, come testimoniano gli oggetti funerari ritrovati nelle tombe dei sovrani delle prime dinastie egizie (circa 3000-2650 a.C.). La sua genealogia, complessa e variegata, lo vede come figlio di diverse divinità, ma la versione più popolare lo vuole figlio di Osiride e Nefti, sorella di Iside. Nel ciclo mitologico che racconta la morte e la rinascita di Osiride, Anubi gioca un ruolo cruciale. Quando Osiride venne assassinato dal fratello Seth, Anubi ricompose il corpo del dio, creando così la prima mummia. Il dio Anubi divenne pertanto il protettore della mummificazione e il suo nome fu legato per sempre alla conservazione dei corpi per l'eternità. Approfondendo la tematica, scopriamo che Anubi non era solo il dio della mummificazione, ma anche il guardiano del viaggio dell'anima nell'aldilà. Una delle fasi decisive di questo viaggio era la "pesatura del cuore". Durante questo processo rituale Anubi, assistito da Osiride, poneva il cuore del defunto su di un piatto della bilancia, mentre sull'altro veniva posata una piuma, simbolo di Maat dea della verità e della giustizia. Se il cuore pesava più della piuma, l'anima veniva consumata dal demone Ammut; se il cuore restava in equilibrio con la piuma, il defunto veniva accolto nei Campi di Iaru, il "paradiso" di Osiride. In molte tombe, Anubi è rappresentato in qualità di guida del defunto nell'aldilà, tenendolo per mano mentre attraversa le oscure e pericolose terre della morte. Questo simbolo di protezione e accompagnamento riflette il suo ruolo di guardiano delle necropoli, proteggendo le tombe dai ladri e dalle forze maligne. Perché un cane o sciacallo fu scelto come guida nell'aldilà? Il cane, con il suo attaccamento incondizionato all'uomo, i suoi sviluppatissimi sensi e la capacità di orientarsi al buio, era visto come l'animale ideale per accompagnare i defunti attraverso le tenebre. Anche i Greci, ad esempio, associavano il dio Ermes (Mercurio) a un cane. Anubi rappresenta quindi non solo la morte e la mummificazione, ma anche la speranza di vita eterna, la protezione durante il viaggio nell'aldilà e la promessa di una rinascita nel regno dei morti. Scopri questa e altre storie visitando la mostra: EGITTO. Viaggio verso l'immortalità
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"Una storia di amore e odio, vendette e lotta per il potere"Tra le molteplici divinità dell’antico Egitto Osiride era probabilmente il dio più amato dalla popolazione. Associato al concetto di immortalità, Osiride forniva una risposta chiara alla paura della morte.
Osiride è il protagonista di una delle leggende più drammatiche della religione egizia. Una storia in cui si mescolano amore e odio, vendette e lotta per il potere. Non esiste un testo egizio completo con i particolari del mito, ma numerose testimonianze frammentarie pubblicate nel corso dei secoli. I primi documenti si trovano nei Testi delle piramidi (risalenti alla metà del III millennio a.C.), mentre l’Inno a Osiride fu inciso dallo scriba Amenmose su una stele circa settecento anni dopo. Fonti più completi del mito ci sono state tramandate grazie a due scrittori greci: Plutarco, con l'opera Iside e Osiride e Diodoro Siculo, nella sua Biblioteca storica. La genealogia di Osiride affonda le sue radici all'origine del mondo. Secondo la cosmogonia che prese forma nella città egizia di Eliopoli, il cosmo era inizialmente un vasto e oscuro abisso, privo di superficie e di confini, popolato soltanto dal dio Atum-Ra. Questi, sentendosi in solitudine, decise di creare il mondo con l'aiuto di una serie di divinità da lui stesso generate. Atum-Ra creò inizialmente i nonni di Osiride: Shu e Tefnut, rappresentanti rispettivamente dell'aria secca e di quella umida. Uniti, essi generarono Nut, la volta celeste, e Geb, la Terra, i genitori di Osiride. Nut e Geb, a loro volta, diedero vita a due coppie di gemelli: Osiride-Iside e Seth-Nefti, ognuno dei quali simboleggiava forze naturali: Osiride la vegetazione, Iside l'amore familiare, Seth la sterilità e la collera, mentre Nefti fungeva da protettrice dei morti. La storia di Osiride è ricca di eventi straordinari, a cominciare dalla sua nascita. Ra, geloso della dea Nut, le proibì di partorire nei consueti 360 giorni dell'anno. Nut, cercando aiuto, si rivolse a Thot, il dio della saggezza. Thot, vincendo contro la Luna a una partita di senet (antenato del backgammon), ottenne in premio i cinque giorni epagomeni, aggiunti all’anno civile di 360 giorni per allinearlo con l'anno solare. Così, Nut approfittò di uno di questi giorni per dare alla luce Osiride, conosciuto anche come Unennefer, cioè il perfetto. In quanto primogenito, Osiride ereditò la valle del Nilo, mentre a Seth, nato con difficoltà il terzo giorno epagomeno, venne destinato il deserto. Da giovane, Osiride viaggiò per il Paese per istruire gli uomini e aiutarli a uscire dalla loro condizione primitiva. Insegnò loro a coltivare il grano e la vite, a lavorare la terra, a venerare gli dèi e a seguire leggi. Nel frattempo, Iside, sua sorella e sposa, si occupava della casa. Invidioso del successo del fratello, Seth architettò un piano per spodestarlo dal trono d’Egitto. Quando Osiride tornò dai suoi viaggi, Seth organizzò un banchetto in suo onore, invitando settantadue complici con l’intento di costruire una bara su misura per lui. Durante i festeggiamenti, Seth proclamò che avrebbe regalato il sarcofago a chiunque si fosse adattato perfettamente. Tutti gli invitati lo provarono, ma risultò sempre troppo grande. Quando fu il turno di Osiride, i cospiratori chiusero rapidamente il coperchio, sigillandolo con chiodi e versando piombo fuso affinché affondasse nel Nilo. Tuttavia, la bara rimase a galla, navigando verso le foci del fiume e poi sul Mediterraneo, fino a arenarsi sulla costa fenicia, vicino a Byblos, nell’attuale Libano. Iside, appresa la notizia, cadde in un profondo dolore. Con un grido straziante si strappò una ciocca di capelli, si vestì di lutto e partì alla ricerca del marito. Un giorno, un vento divino le rivelò che la bara era approdata a Byblos, avvolta da un albero di tamerice. Questo albero, crescendo, aveva nascosto il corpo di Osiride. Purtroppo, il re di Byblos decise di abbattere l'albero per utilizzarlo come colonna del suo palazzo. Iside, grazie ai suoi poteri magici, si avvicinò alle serve della regina e divenne la nutrice di uno dei suoi figli. Dopo varie avventure, riuscì a recuperare la colonna e riportare il corpo di Osiride in Egitto, nascondendolo a Buto, nel delta del Nilo. Tuttavia, Seth lo scoprì durante una battuta di caccia. Temendo che Iside potesse riportare in vita il marito, Seth rubò il corpo e lo smembrò in quattordici pezzi, gettandoli nel Nilo. Dopo aver appreso dell'orribile destino del marito, Iside intraprese nuovamente il viaggio in Egitto per raccogliere i resti di Osiride. Ogni volta che trovava un frammento, ordinò che fosse eretto un santuario in onore di Osiride, contenente una copia del suo corpo per depistare Seth. È per questo che nell'Alto Egitto venivano venerate sette parti del dio, mentre nel Basso Egitto altre quattro. Secondo Plutarco, solo la testa originale fu sepolta nel tempio di Abydos, considerato la vera tomba di Osiride. Per questo motivo, gli egizi dovevano compiere un pellegrinaggio rituale verso il santuario di Abydos, sia in vita che dopo la morte. Dopo aver recuperato i resti, Iside, con l’assistenza di Anubi, dio dell’imbalsamazione con testa di cane, ricostruì il corpo di Osiride grazie ai suoi poteri magici. Tuttavia, un problema si presentò: il fallo di Osiride era stato accidentalmente mangiato da un pesce del Nilo. Iside dovette quindi crearne uno di argilla e incantarlo. Successivamente, assunse la forma di un nibbio e, battendo le ali sopra il corpo di Osiride, provocò una brezza rigeneratrice che lo riportò in vita. Con il membro eretto, Osiride poté unirsi nuovamente a Iside. Minacciata di nuovo da Seth, Iside si rifugiò su un’isola del delta del Nilo, dove partorì Horus, il dio falco. Inizialmente debole, Horus ricevette le cure e le protezioni di Iside grazie ai suoi incantesimi. Col passare del tempo, Horus divenne forte e si preparò a vendicare il padre e a reclamare il suo diritto al trono d’Egitto. Pur essendo tornato in vita, Osiride non governò più sulla Terra, ma assunse il controllo del regno dei morti. I defunti aspiravano a unirsi a lui per vivere un’eternità soddisfacente, in cui nulla potesse mancare. "Uno stile già maturo capace di giocare con i simboli, il mistero e l’inconscio"Una delle primissime opere metafisiche di Giorgio de Chirico fu L’enigma dell’ora. All’interno della tela il pittore mostrava uno stile già maturo capace di giocare con i simboli, il mistero e l’inconscio. L’opera risale all’anno 1910 o 1911, il pittore aveva solo ventitré anni durante la sua realizzazione. Grazie anche a questa tela, de Chirico riuscì a ottenere grande fama tra i suoi contemporanei, esponendo i suoi primi capolavori al Salon d’Automne e al Salon des Indépendants di Parigi. Il pittore inserì nel dipinto uno sfondo composto da una successione di cinque arcate a tutto sesto antistanti un porticato in ombra. Nella parte alta trova spazio una lunga loggia sulla cui parete esterna è appeso un orologio. In basso è presente una fontana quadrangolare con al centro un piccolo zampillo d’acqua. Le figure umane della rappresentazione sono tre: un uomo vestito di bianco in primo piano; un secondo personaggio in ombra sotto il secondo arco da destra; un terzo personaggio nel loggiato. Le grandi aperture rette da semicolonne del corridoio superiore, infine, lasciano intravedere un cielo azzurro e terso che controbilancia la solennità data dal gioco di luci e ombre che oscura e illumina la piazza. L’enigma, a cui allude il titolo dell’opera, risiede proprio nella difficoltà da parte dello spettatore di trovare una correlazione tra l’ora segnata dall’orologio e la luce nella piazza. Le lancette indicano infatti pochi minuti prima delle tre del pomeriggio. Il sole sembra tuttavia aver superato lo zenit (dovrebbero essere quindi mezzogiorno). Manca dunque una correlazione coerente tra gli elementi inseriti nella tela. Ciò suggerisce che la scena sia in realtà la raffigurazione di un sogno in cui il tempo si fa sospeso e ogni soggetto non è legato all’altro da rapporti di causa-effetto. "L'aspetto piscologico e soggettivo del tempo"L’opera di de Chirico ispirò a Dalì il celebre capolavoro La persistenza della memoria. In questo dipinto gli orologi sono deformati rispetto la loro forma geometrica perché non rappresentano il tempo lineare ma, come per de Chirico il suo aspetto psicologico e soggettivo. All’interno della sua autobiografia, La mia vita segreta, Salvador Dalì parlò a proposito di come era nata la sua opera. Il pittore aveva un leggero mal di testa. Pur volendo andare al cinema, all’ultimo momento decise di rimanere a casa. Durante la cena mangiò un camembert, formaggio francese dal sapore molto intenso. Dopo che Gala se ne era andata, Dalì rimase a lungo a meditare sul problema filosofico posto da quel formaggio. Si recò quindi nel suo atelier per gettare un ultimo sguardo sul dipinto a cui stava lavorando. Prima di spegnere la luce ebbe l’intuizione: "Due orologi molli uno dei quali pendeva miserevolmente dal ramo dell’ulivo. Nonostante il mal di testa fosse ora tanto intenso da tormentarmi, preparai febbrilmente la tavolozza e mi misi al lavoro. Quando, due ore dopo, Gala tornò dal cinema, il quadro, che sarebbe diventato uno dei più famosi, era terminato". Il paesaggio è deserto e privo di vegetazione, l’unica cosa che notiamo sono tre orologi dalla consistenza liquefatta. Da questo il nome di "orologi molli" con cui l'opera passò alla storia. Per info sulla mostra di de Chirico a Conegliano, premi il pulsante in basso
"Il simbolo della tragedia afghana"La fotografia più celebre di Steve McCurry rappresenta l’immortale immagine della ragazza afgana. L’istantanea venne realizzata in Pakistan, vicino Peshawar, precisamente dentro un campo profughi. Pubblicata nel giugno del 1985, la ragazza afghana è stata il volto di molte campagne di solidarietà, promosse, ad esempio, da Amnesty International. La fotografia che Steve McCurry scattò alla giovane ragazza, molti anni prima di conoscere il suo nome, è diventata simbolo della tragedia afghana e della dignità con cui il suo popolo ha affrontato la guerra e l’esilio. Un’immagine catturata in uno dei luoghi più inospitali della terra, ovvero uno spazio per i rifugiati. Rappresentando questo luogo di dolore, McCurry ha inteso sensibilizzare il pubblico nei confronti delle atrocità che vi si commettono e delle condizioni precarie in cui versa una parte dell’umanità. La fotografia ha una genesi quasi casuale: un giorno, passeggiando per il campo Nasir Bagh, McCurry sentì delle giovani voci provenire da una tenda adibita a scuola e si avvicinò chiedendo all’insegnante il permesso di immortalare con la sua macchina fotografica la lezione in corso. Ottenuto il permesso, il fotografo venne subito colpito dagli occhi magnetici di un’allieva che rimaneva un po’ defilata. “Mi accorsi subito di quella ragazzina. Aveva un’espressione intensa, tormentata e uno sguardo incredibilmente penetrante – eppure aveva solo dodici anni. Siccome era molto timida, pensai che se avessi fotografato prima le sue compagne avrebbe acconsentito più facilmente a farsi riprendere, per non sentirsi meno importante delle altre”. Seppur concepita e realizzata in pochi secondi, l'immagine risulta perfetta e rivela immediatamente la capacità di McCurry di stabilire un intenso, seppur effimero, rapporto con i propri soggetti. Dopo la pubblicazione della foto sulla copertina del National Geographic, McCurry racconta di come successe il finimondo in redazione. “Sono stati sommersi dalle lettere. Tutti volevano sapere chi era, aiutarla, mandare soldi, adottarla, uno la voleva persino sposare.” "I suoi occhi continuavano a trasmettere tutta la forza interiore del soggetto"La ragazza, di nome Sharbat Gula, rimase sconosciuta per oltre 15 anni dalla pubblicazione dello scatto sulla rivista, finché il fotografo non riuscì a ritrovarla.
Partito per una spedizione con una squadra del National Geographic, nel 2002 giunse in Pakistan. Il campo profughi di Peshawar stava per essere demolito, McCurry aveva un’ultima possibilità di rivedere la ragazza. Iniziò la ricerca mostrando la sua foto ad alcuni anziani del campo e, una volta sparsa la voce, diverse donne arrivarono affermando di essere la bambina del ritratto. Dopo alcuni giorni andati a vuoto la spedizione stava per prendere la via del ritorno, finché l’arrivo di uomo stravolse i piani. Quest’ultimo assicurava che Sharbat era viva, si era sposata ma era tornata da diversi anni in Afghanistan. Così, dopo un lungo e pericoloso viaggio, McCurry tornò nel paese ancora in guerra e rivide la ragazza con la stessa carica emotiva con cui l’aveva lasciata. “La sua pelle è segnata, ora ci sono le rughe, ma lei è esattamente così straordinaria come lo era tanti anni fa” disse in un’intervista al The Guardian “Le spiegai che la sua immagine aveva commosso moltissime persone, ma non sono sicuro che la fotografia o il potere della sua immagine significassero davvero qualcosa per lei o che fosse in grado di capirli fino in fondo”. Nonostante l’aspetto di Sharbat fosse completamente mutato, anche a causa delle dure prove che la vita in guerra le aveva riservato, i suoi occhi continuavano a trasmettere tutta la forza interiore del soggetto. Steve McCurry fu molto riconoscente alla donna che gli aveva donato fama internazionale. Egli infatti contribuì ad aiutarla in molti modi, ad esempio fornendo a lei e al marito i mezzi per effettuare il pellegrinaggio alla Mecca. “Era il sogno più importante della loro vita e senza quella foto non si sarebbe mai realizzato. È stato bello poterle rendere almeno in parte ciò che le dovevo”. Articolo a cura di Daniel Buso Per info sulla mostra di Pisa clicca il pulsante qui in basso. "La morte di Floyd è divenuta il simbolo della violenza sistematica della polizia"Una delle sezioni della mostra American Beauty. Da Robert Capa a Banksy affronta le condizioni degli afroamericani negli Stati Uniti, iniziando dai movimenti civili degli anni Sessanta fino ai giorni nostri. Nel 2013 ha iniziato a circolare l'hashtag #BlackLivesMatter, traducibile in “le vite delle persone nere contano”. Dall'hashtag ha preso il via un movimento per i diritti civili di grande attualità. Il Black Lives Matter si è sviluppato all'interno della comunità afroamericana statunitense, in reazione a svariati omicidi di persone nere da parte delle forze di polizia e, in particolare, contro l'assassinio (rimasto impunito) del diciassettenne Trayvon Martin. I sostenitori si sono scagliati, più in generale, contro le politiche discriminatorie ai danni della comunità nera. A partire dal 2020, il video del brutale arresto di George Floyd, culminato nell'omicidio, ha suscitato reazioni internazionali. La morte di Floyd è divenuta il simbolo della violenza sistematica della polizia, chiaro sintomo di un razzismo ancora endemico negli Stati Uniti. L'episodio è stato seguito da un'ondata di proteste senza precedenti in tutto il mondo, rendendo il Black Lives Matter un movimento internazionale. Il presidente Joe Biden ha parlato di “razzismo strutturale”, riportando l'attenzione su un tema che poteva sembrare superato. Il dibattito, negli ultimi tre anni, si è allargato portando l'attenzione sulle vite di tutti gli immigrati in Occidente, fino alla discussione sulla restituzione delle opere d'arte ai popoli saccheggiati durante il periodo coloniale. Tali riflessioni non sono chiaramente inedite nella società americana. L'intera storia del paese è attraversata da contraddizioni a sfondo etnico, spesso rimaste irrisolte. I frequenti casi di brutalità e uso della forza da parte delle forze dell'ordine statunitensi determinarono la nascita del movimento per i diritti civili già a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso. La novità nell'episodio dell'omicidio di Floyd sta nel medium con cui è stato diffuso: un video su YouTube. La potenza pervasiva del digitale ha determinato una visibilità del fenomeno impensabile nei decenni precedenti. "La marcia di Selma"La fotografia di Steve Schapiro, esposta in mostra, ci porta nel 1965, nel cuore dell'evento che cambiò la storia dei diritti civili negli Stati Uniti. Schapiro, fotografo newyorkese fedele alla poetica di Cartier-Bresson, fu un osservatore molto attento delle rivendicazioni delle minoranze, impiegando spesso il proprio medium per il racconto delle manifestazioni a sfondo politico. Il 7 marzo 1965 si tenne la prima marcia che dalla cittadina di Selma tentò di arrivare a Montgomery in Alabama. Seicento persone, tutte afroamericane, manifestarono in modo pacifico per chiedere il diritto di voto e la fine della segregazione razziale. Il corteo fu vittima di una violenta carica della polizia. Le immagini degli scontri indignarono il mondo e convinsero il presidente Lyndon Johnson a promulgare la legge sul diritto di voto per i neri. La marcia venne organizzata da Martin Luther King. Nonostante gli scontri, il leader del movimento per i diritti civili della minoranza afroamericana ne organizzò in seguito altre due. Con l'ultima, il 25 marzo del 1965, riuscì a radunare 25 mila persone che raggiunsero il palazzo del governatore dell'Alabama dove King pronunciò uno dei suoi più celebri discorsi: “How long? Not long”. Obama nel 2015 tornò a Selma e propose a sua volta un emozionante discorso. Queste alcune delle parole pronunciate: “Un errore comune è pensare che il razzismo sia stato sconfitto, che il lavoro iniziato dagli uomini e dalle donne che erano presenti qui a Selma sia concluso, e che ogni tensione razziale rimasta sia frutto di situazioni contestuali. Sappiamo che la marcia non è ancora finita, che la battaglia non è ancora stata vinta”. "Fighting Shirley"Il fotografo Maurice Sorrell spese buona parte della sua carriera nello sforzo di catturare la storia del movimento per i diritti civili nel profondo sud. Non era insolito per Sorrell trovarsi di fronte a folle inferocite e cani poliziotto o essere esposto a gas lacrimogeni mentre fotografava i leader dei diritti civili. Tra questi un posto di primo piano spetta a Shirley Chisholm, la prima donna afroamericana ad essere eletta nel Congresso americano.
Nata a Brooklyn negli anni Venti, Chisholm decise, fin dai tempi del college, di intraprendere la carriera politica. “Fighting Shirley”, così la chiamavano al Congresso, riuscì a introdurre più di 50 atti legislativi a sostegno dell'uguaglianza razziale e di genere, della condizione dei poveri e per la fine della guerra del Vietnam. La discriminazione, tuttavia, le impedì di partecipare alle primarie del Partito Democratico del 1972. Le fu vietato di prender parte ai dibattiti televisivi e, a seguito di una azione legale, le fu concesso di fare un solo discorso. Riuscì ad ottenere il 10% di voti, nonostante una campagna sottofinanziata e le costanti polemiche di politici e media americani. "Al centro del centro del mondo"La casa di Giorgio de Chirico occupa i tre piani superiori del seicentesco Palazzetto dei Borgognoni al n. 31 di piazza di Spagna a Roma. L’artista visse qui gli ultimi trent’anni della sua vita, insieme alla seconda moglie Isabella Pakszwer Far che continuò ad abitarvi fino alla sua scomparsa. Arrivato a Roma da Firenze nel 1944, dopo un lungo girovagare tra diverse città europee e un soggiorno importante a New York, de Chirico risiedette definitivamente nella casa di piazza di Spagna dal 1948, all’età di sessant’anni. L’abitazione è collocata in una posizione “strategica”, nel cuore di quello che fu considerato il centro culturale e artistico della città fin dal Seicento – con gli atelier di via Margutta e via del Babuino, le gallerie, lo storico Caffè Greco in via Condotti, l’affascinante scenario di Trinità dei Monti e di Villa Medici –, e rappresentò per l’artista maturo il luogo ideale dove stabilirsi e continuare a lavorare. Nel 1945 così scriveva l’artista a proposito di un suo trasferimento nella capitale: “Dicono che Roma sia il centro del mondo e che piazza di Spagna sia il centro di Roma, io e mia moglie, quindi, si abiterebbe nel centro del centro del mondo, quello che sarebbe il colmo in fatto di centrabilità ed il colmo in fatto di antieccentricità”. Grazie al lascito di Isabella Far e al restauro degli ambienti e degli arredi, eseguito con rigore filologico, oggi casa de Chirico è accessibile al pubblico. Inaugurata il 20 novembre 1998, ventennale della scomparsa del Maestro, offre un’occasione esclusiva per avvicinarsi al mondo privato dell’artista e accedere al suo originale immaginario artistico, in un sorprendente e suggestivo intreccio tra arte e vita. "Una sontuosa living gallery"I sontuosi ambienti del piano principale immergono in una visione rubensiana di grandi saloni di stile seicentesco, con un cospicuo numero di opere, alcune in preziose cornici dorate, tende damascate color rosso (realizzate ex novo in base a quelle originali), argenti, putti in legno, tavolini di marmo e poltroncine stile Luigi XVI. Concepita così come una suntuosa living gallery, questa rappresenta la parte più vitale della casa, vivace luogo di incontri e ricevimenti.
Dipinti e sculture sono esposti secondo il progetto espositivo della Fondazione (che viene rinnovato con una cadenza semestrale) con l’obiettivo di far conoscere al pubblico i diversi soggetti e temi elaborati dal Maestro, lungo un percorso affascinante: dalla selezione di opere degli anni Quaranta e Cinquanta – tra cui alcuni mirabili d’apres dai Grandi maestri, ritratti di Isabella e autoritratti – passando per il particolare corpus delle “Vite silenti” esposte nella sala da pranzo, fino alla produzione pittorica degli ultimi dieci anni della sua carriera, il periodo cosiddetto “Neometafisico”, visibile nella parte nuova della casa, acquistata verso la fine degli anni Sessanta. Le sculture, come presenze silenziose disseminate nei vari ambienti, raccontano i miti classici reinterpretati secondo l’immaginario dechirichiano o i personaggi della sua personale mitografia. Salendo le scale che conducono al secondo piano, si raggiungono gli ambienti più intimi della casa: le stanze da letto e lo studio dell’artista. Quest’ultimo ambiente rappresenta senza dubbio il luogo più suggestivo della casa. La luce che filtra dall’ampia apertura del soffitto si posa sul cavalletto del Pictor Optimus e sui numerosi oggetti del mestiere utilizzati dal Maestro e lasciati lì come pronti per il prossimo lavoro. Diversi modelli in gesso di statue antiche, gladiatori e cavalli, sovrastano la biblioteca personale dell’artista, ricca di preziose monografie – da Watteau a Courbet, Delacroix, Rubens e molti altri. Un’ampia terrazza costituisce l’ultimo piano della casa, il luogo dove de Chirico amava sostare durante il giorno per ammirare lo spettacolo di Roma e della Natura. Infine, negli ambienti in cui attualmente sono presenti gli uffici della Fondazione – un tempo la cucina di casa de Chirico – è ospitata la biblioteca, costituita da numerose edizioni degli scritti dell’artista, cataloghi di mostre monografiche e collettive, saggi e monografie, consultabili su richiesta. "58 mila americani e circa 3 milioni di vietnamiti persero la vita durante la terribile e sanguinosa guerra del Vietnam"58 mila americani e circa 3 milioni di vietnamiti persero la vita durante la terribile e sanguinosa guerra del Vietnam. Un conflitto inspiegabile, lungo vent'anni, capace di scatenare la più potente ondata pacifista del mondo. Moratorium to end the war in Vietnam fu una marcia capace di mobilitare e unificare studenti, lavoratori, artisti e intellettuali degli anni Sessanta. Durante le proteste nacquero i primi movimenti di contro-informazione, che segnalarono l'uso del napalm da parte dei soldati americani, gli abusi e i massacri che sconvolsero l'opinione pubblica. La guerra in Vietnam diede, per ironia della sorte, un impulso fondamentale alla più importante rivoluzione culturale dell'occidente, quella del ‘68. Un movimento capace di porsi contro l'intero sistema della cultura borghese e che si estese a tutte le forme di comportamento: dal vestiario, al linguaggio, passando per le relazioni sessuali e familiari, fino al rinnovamento delle arti. Da lì iniziò un cammino di speranza, di sogni, di emancipazione, oltre che un percorso di riscoperta dell’individuo e della sua sensibilità. I due fotografi, Stephen Shames e Jill Freedman, mostrano come l'America fosse spaccata in due dalla guerra in Indocina. Da un lato i pacifisti e il loro ideale di libertà, dall'altro i patrioti che salutavano enfaticamente i propri concittadini mandati dall'altro lato del mondo a difendere illusoriamente la propria civiltà contro la minaccia comunista. "Spettatore consapevole dell'influenza che il suo paese voleva esercitare in Vietnam, Indiana decise di esprimersi attraverso l'arte, con un gesto provocatorio"L'artista Pop Robert Indiana è indelebilmente impresso nell'immaginario collettivo per la scritta LOVE, declinata in un'infinità di rappresentazioni e supporti artistici.
Nel 1997 lavorò ad un portfolio di opere intitolato “American Dream”, rielaborando opere serigrafiche prodotte nei precedenti trent'anni di carriera. “New Glory Banner” vide la luce per la prima volta nel 1961. Gli elementi decorativi a stelle e strisce della bandiera americana cessano qui di essere un motivo puramente astratto per acquisire connotazioni politiche. Siamo nel 1961, gli Stati Uniti e in particolare l'amministrazione Kennedy stavano preparando una delle operazioni militari più disastrose nella storia del paese: l’invasione del Vietnam. L'afflusso massiccio di truppe e mezzi bellici sarebbe iniziato l'anno successivo, ma le ingerenze americane in Indocina erano iniziate già pochi mesi dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Spettatore consapevole dell'influenza che il suo paese voleva esercitare in Vietnam, Indiana decise di esprimersi attraverso l'arte, con un gesto provocatorio. Le stelle di questa bandiera capovolta sono 51. Ai 50 stati che la compongono, l'artista propose di aggiungerne un altro: il Vietnam, appunto. Dato l'interesse che i suoi leader manifestavano per quel remoto paese, poteva esserci una soluzione migliore di una annessione in piena regola? "Il lato insolito e misterioso dietro l'apparente banalità della vita quotidiana"La Metafisica non fu un movimento artistico; essa può definirsi, più correttamente, come una tendenza della pittura italiana del secondo decennio del Novecento, l’esito di un’operazione estetica, la manifestazione di un’espressione pittorica maturata nell’alveo della ricerca di de Chirico. Il termine “metafisica”, applicato alla pittura, può essere letto in senso letterale, come al di là della fisica. Secondo de Chirico, infatti, l’arte non doveva avere alcun legame con la realtà, poiché il suo scopo era scoprire la via alternativa per svelare il lato insolito e misterioso che si cela dietro l’apparente banalità della vita quotidiana. “Perché un’opera d’arte sia veramente immortale”, scrisse de Chirico, “è necessario che esca completamente dai confini dell’umano: il buon senso e la logica la danneggiano”. Il concetto “metafisico” ebbe origine in filosofia. Giorgio de Chirico intese esprimere l’idea di un tempo “circolare” legata all’“eterno ritorno” delle cose e degli avvenimenti, attraverso l’influenza del pensiero di Schopenhauer e Nietzsche. La sua pittura esprime il “grande vuoto” della realtà ultima, liberata dalle sovrastrutture e perciò terrificante. Le piazze, le torri e gli oggetti sono collocati in un posto senza tempo, come se fossero sospesi nel vuoto, illuminati da una luce fredda e impetuosa proveniente da una fonte invisibile. "Schopenhauer e Nietzsche per primi insegnarono il profondo significato del non-senso della vita e come tale non-senso potesse venire trasmutato in arte, anzi dovesse costituire l’intimo scheletro d’una arte veramente nuova, libera e profonda", disse de Chirico. "Ogni cosa, animata o inanimata, ha un suo essere metafisico"I primissimi quadri di de Chirico vennero prodotti sulla scia dell’ispirazione generata dall’incontro con le opere simboliste del pittore svizzero Arnold Böcklin e dell’artista tedesco Max Klinger, a Monaco di Baviera. Attraverso figure mitologiche, il pittore ambiva alla creazione di visioni sorprendenti del mondo e della natura. A Monaco di Baviera e, successivamente, a Firenze, de Chirico lesse varie opere di Nietzsche, pubblicate a fine Ottocento, come Ecce homo, La Nascita della tragedia e Così parlò Zarathustra. Il filosofo tedesco diventò così parte integrante della sua riflessione pittorica. Due aspetti su tutti lasciarono un segno indelebile: lo sguardo metafisico delle cose quotidiane del mondo e la percezione del tempo sospeso e circolare, noto come l’eterno ritorno. Ogni cosa, animata o inanimata, secondo il pensiero nietzschiano, ha un suo essere metafisico, un suo linguaggio. Ogni cosa può essere intesa psicologicamente cambiando prospettiva o punto di vista. Ispirato da tali pensieri filosofici, de Chirico ebbe le sue prime “rivelazioni” a Firenze, nell’autunno del 1910. Apparirono, per la prima volta nella sua mente, immagini trasfigurate della realtà capaci di rivelare all’artista l’essenza nascosta delle cose e dell’ambiente circostante. Visita la mostra a Palazzo Sarcinelli di Conegliano
Info su www.artika.it "Un duplicato del corpo in negativo"Una caratteristica costante di Vivian Maier, destinata a diventare una sorta di firma nei suoi autoritratti, fu la sua ombra. L'ombra, quella silhouette la cui caratteristica distintiva è l'attaccamento al corpo. Quel duplicato del corpo in negativo, ritagliato dalla realtà, ha l'abilità di rendere presente ciò che è assente. Sebbene l'ombra attesti l'esistenza di ciò a cui si riferisce, essa allo stesso tempo cancella la sua presenza. All'interno di questo dualismo, Vivian Maier si destreggiava con una versione di sé sul confine tra la sparizione e l'apparizione del suo doppio. "L'ombra è la forma più vicina alla realtà"Secondo Plinio il Vecchio, la pittura ebbe origine quando una fanciulla dipinse la silhouette del suo amato su una parete. Il grande scrittore romano descrisse l'episodio leggendario nella Naturalis Historia. Secondo il mito, la giovane figlia di un vasaio tratteggiò con una linea l'ombra del volto del suo innamorato proiettata sul muro dal lume di una lanterna. Su quelle linee il padre impresse l'argilla riproducendone il volto e dando vita al primo ritratto nella storia dell'arte. Vivian Maier adottò questa tecnica utilizzando la proiezione della propria silhouette. Si tratta probabilmente della più sintomatica e riconoscibile tra tutte le tipologie di ricerca formale da lei utilizzate. L’ombra è la forma più vicina alla realtà, è una copia simultanea. È il primo livello di una autorappresentazione, dal momento che impone una presenza senza rivelare nulla di ciò che rappresenta. "Il segno della sua intrusione nella privacy del soggetto"Molti scatti di Vivian Maier sono ravvicinati. Tale prossimità le consentiva una rappresentazione molto intima dei suoi soggetti. Si palesa così una componente essenziale del suo atteggiamento: la faccia tosta, attitudine che le dava la possibilità di fotografare le sue figure spesso in situazioni private. Uomini e donne addormentati sulle panchine, persone rilassate su manti erbosi, semplici passanti più o meno famosi, sono alcuni esempi di soggetti amati da Vivian Maier. Questa passione non fa che avvicinare il suo stile a quello dei grandi fotografi francesi della strada. Vivian non soltanto coglieva l’attimo in composizioni divertenti, ma si muoveva ai margini della composizione, passando spesso inosservata. L’ombra dell’artista, nella parte bassa della composizione, è il segno della sua intrusione nella privacy del soggetto. La chiara immagine della fotografa che si intromette ed instaura un rapporto con la donna stesa a prendere il sole (probabilmente del tutto inconsapevole di essere vista). Visita la mostra a Palazzo SarcinelliHai tempo fino al 11 giugno 2023.
"Una bambinaia, una governante, una fotografa"Chi era Vivian Maier? Una bambinaia, una governante, una fotografa. Della sua personalità è assai difficile fornire un’immagine coerente. Il suo carattere e la sua vita sono stati raccontati solo sulla base del modo in cui si è autoritratta. Maier nacque da madre francese e padre austriaco nel quartiere del Bronx di New York. All'età di quattro anni viveva con la madre assieme a Jeanne Bertrand, una pluripremiata fotografa ritrattista, mentre suo padre aveva già abbandonato il nucleo familiare. La ritrattistica da studio della giovane Jeanne Bertrand era del tutto simile all’estetica di Julia Margaret Cameron, tra le prime fotografe donne nella seconda metà dell’Ottocento. Nel 1932 Marie, la madre di Vivian, non riusciva a trovare lavoro in America e fu perciò costretta a ritornare in patria. La nonna Eugénie pagò loro il viaggio da New York alla valle Champsaur in Francia. Vivian Maier parlava solo inglese e fu costretta a confrontarsi con i contadini francesi a soli sei anni. Nel 1933 Marie si fece ritrarre assieme alla figlia. È una delle primissime immagini note di Vivian Maier. Sedute di fronte ad una fattoria, le due protagonisti dello scatto non sorridono. La posa e l’espressione comunicano una sensazione di imbarazzo. Nel 1938 Marie Maier si preparava a tornare negli States. Vivian aveva dodici anni. Il transatlantico SS Normandie le fece sbarcare a New York. L’adolescenza di Vivian Maier coincise con la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1945 aveva ormai compiuto vent’anni. Già dal 1943 la sua vita si svolgeva separatamente dalla madre. Vivian abitava nel Queens presso una coppia sposata che accoglieva bambini in affido: i Lindenberger, amici di nonna Eugénie. Negli stessi anni lavorava presso una fabbrica di bambole, posto che prefigurava la sua futura professione di bambinaia. Nel 1950 fece un lungo viaggio in Francia per rivendicare (e vendere) le proprietà di famiglia che le erano state date in eredità. Durante il suo viaggio nel Vecchio Mondo l'artista realizzò le sue prime fotografie, circa tremila immagini. "L'elegante viaggiatrice era divenuta una babysitter vestita da casalinga"Nell’estate del 1951 Vivian viveva a Southampton, Long Island, in un ambiente benestante. Iniziava la sua carriera di tata e governante. La trasformazione si era compiuta: l’elegante viaggiatrice era divenuta una babysitter vestita da casalinga. Alla fine dell’estate Vivian andò a Manhattan. I suoi scatti sono ravvicinati e questo le consentiva una rappresentazione molto intima dei suoi soggetti. Emerse allora la sfacciataggine di Vivian Maier, capace di fotografare le sue figure spesso in situazioni private, correndo perciò anche qualche rischio. Nel 1952 Vivian Maier aveva un nuovo lavoro di bambinaia a Manhattan. Da questo momento le strade di New York diventarono le sue strade. La nuova base era l’Upper West Side. L’appartamento in cui viveva, elegantemente arredato, si affacciava su Riverside Park lungo la 106ª Strada. In questo periodo si dotò della sua prima Rolleiflex e acquistò un flash. Fu uno straordinario periodo di crescita artistica, favorito da un lavoro (quello di bambinaia) che le dava l’opportunità di peregrinare in giro per la città. Nel 1956 lasciò la costa orientale per Chicago, dove avrebbe trascorso la maggior parte del resto della sua vita lavorando sempre come tata e governante. Origini francesi, vita da newyorchese. Maier non rinnegò mai le sue origini, annotando spesso descrizioni in francese sulle sue stampe e sui suoi taccuini e dichiarò sempre ai suoi conoscenti la passione per la Grande Mela. La fotografa realizzò le sue opere senza sosta dai primi anni ’50 a New York fino almeno agli anni ’90 a Chicago. "Un tesoro destinato a divenire inestimabile"Il 25 novembre 2008 Vivian Maier si alzò dalla sua panchina preferita sul lago Michigan nei pressi di Chicago e cadde. Venne trasportata in ospedale, sebbene fosse riluttante, e lì trascorse gli ultimi cinque mesi di vita. In questo breve lasso di tempo il riconoscimento dell’importanza delle sue foto conobbe un’accelerazione. John Maloof, il suo scopritore, aveva iniziato a pubblicare le sue immagini e la richiesta delle stampe aumentava senza sosta.
Vivian Maier morì il 21 aprile del 2009, quando un nutrito gruppo di appassionati di fotografia iniziava già ad esaltare la sua opera su blog e forum online. Vivian Maier è stata ricordata da chi la conobbe come una donna sola, sostenuta da una trascinante passione per l’arte fotografica. Grazie a questo suo grande amore, consegnò alla storia una mole impressionante di opere. Tuttavia, non realizzò mai una mostra d’arte mentre era in vita. Le sue opere iniziarono a divenire di dominio pubblico solo a partire dal 2007. Un tesoro destinato a divenire inestimabile: più di centomila negativi, migliaia di fotografie stampate in ogni formato, scatole Kodak con centinaia di diapositive e pellicole cinematografiche; oltre che più di mille rullini non ancora sviluppati. Da questo momento la storia cambiò il proprio corso. L’anonima bambinaia di Chicago era pronta per diventare Vivian Maier, autorevole rappresentante della street photography. |
Daniel BusoStorico dell'arte e direttore artistico di ARTIKA Archivi
Dicembre 2024
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