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IL BLOG DI ARTIKA

L'INDIA DI McCURRY

15/11/2021

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"Il confine tra pubblico e privato si annulla"

Nel 1978, all’età di 28 anni, Steve McCurry lascia la posizione di fotografo presso un giornale provinciale di Filadelfia per dar vita ad uno dei suoi più grandi sogni: visitare l’India.

Il fotografo acquista duecento rullini e lascia gli Stati Uniti. L’inizio non è dei più esaltanti e, come ci racconta lui stesso, a sole due settimane dall’arrivo, “in un posto chiamato Kodaikanal, nel Sud, mi presi l’amebiasi e inoltre dovetti sottopormi a una serie di iniezioni antirabiche, dopo essere entrato in contatto con un cane idrofobo”. Di questo primo viaggio poco rimane poiché le imprese maggiori di fine anni ’70 si concentrano nella documentazione di Afghanistan e Pakistan.

Nel 1983 torna però nel subcontinente con lo scopo di documentare il monumentale sistema ferroviario dell’Asia meridionale. Ne deriva un resoconto preciso ed emozionante della vita quotidiana in India, dove la maggior parte delle attività avviene in pubblico: come mangiare, dormire e lavarsi. La serie di immagini è un grande ritratto di questa complessa società in cui il confine tra pubblico e privato si annulla, un paese in cui “i poveri, ma anche quelli che se la cavano un po’ meglio, tendono a vivere in strada”, sottolinea McCurry.

Il suo racconto per immagini dell’India non è però puramente romantico, poiché non trascura di parlarci dei profondi contrasti e delle iniquità che ancor oggi costellano quel mondo lontano. Nel tempo l’India è diventata una delle nazioni più frequentate da McCurry, protagonista di preziose serie documentarie pubblicate da prestigiose riviste internazionali.

"Lo sguardo esprime appieno lo spirito della sua gente"

Foto
Rajasthan, India, 2009 ©Steve McCurry
L’immagine qui pubblicata, scattata nel 2009, rappresenta una bellissima bambina nomade incontrata dal fotografo in Rajasthan, nell’India del Nord, dove egli svolgeva un prezioso lavoro di documentazione delle popolazioni nomadi.

L’etnia di appartenenza è Rabhari, nomadi principalmente dediti alla pastorizia. Essi viaggiano incessantemente alla ricerca di cibo per i loro animali. McCurry ci racconta di come i Rabhari saranno presto costretti a trasferirsi presso i centri urbani, finendo così per perdere la propria affascinante alterità. Il Rajasthan si sta trasformando in un territorio inospitale per i nomadi sia a causa del cambiamento climatico che a seguito della massiccia opera di edificazione e industrializzazione.

La piccola protagonista si chiama Shakti e sembra accoglierci nella sua piccola casa-tenda. Lo sguardo esprime appieno lo spirito della sua gente, orgogliosa e indipendente.

Le qualità pittoriche di questa immagine sono impressionanti, sia dal punto di vista della luce che della composizione, ma lo è altrettanto il senso di empatia e di comprensione che il fotografo riesce a suscitare nello spettatore di questa scena così toccante. Riprendendo le parole di Anthony Bannon, direttore della George Eastman House di New York, si può dire che “l’immagine in oggetto è perfettamente in linea con i suoi obiettivi artistici: rappresentare, attraverso le vite degli altri, questioni di portata universale, che ci parlino della condizione umana”.

Articolo a cura di Daniel Buso
Per info sulla mostra in corso a Palazzo Sarcinelli, clicca il link qui in basso
Mostra mccurry
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FOTOGRAFARE A RISCHIO DELLA VITA

8/11/2021

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McCurry entra in Afghanistan senza documenti, accompagnato esclusivamente dalla macchina fotografica e da un coltellino svizzero

Nel 1979 le truppe sovietiche invadono l’Afghanistan per soccorrere il governo nel tentativo di spezzare la resistenza dei mujahidin, a loro volta sostenuti dagli Stati Uniti. Nel maggio dello stesso anno Steve McCurry entra nel paese con un gruppo di ribelli, travestito da afghano. L’allora giovanissimo fotografo si presenta privo di documenti e accompagnato esclusivamente dalla macchina fotografica e da un coltellino svizzero.

Il viaggio comincia dall’India centrale, dove McCurry si trovava da quasi due anni, per continuare in Pakistan, a ovest dell’Himalaya. Nella piccola cittadina di Chitral, il fotografo entra in contatto con alcuni rifugiati, i quali gli fanno indossare un logoro shalwar kameez e lo conducono al confine. “Mi sentivo allo stesso tempo spaventato ed eccitato nel partire dal Pakistan in quegli abiti per entrare clandestinamente in un altro paese, senza alcuna possibilità di comunicare con il resto del mondo”.

Steve McCurry si trova così nel mezzo della guerra fredda, testimone esclusivo e segreto di un conflitto manovrato da Stati Uniti e Unione Sovietica. Il fotografo aveva all’epoca ventinove anni e, nonostante le inevitabili tensioni ed il rischio costante di perdere la propria vita, vive una delle esperienze più esaltanti della propria carriera. Situazione che gli permette, in primo luogo, di incontrare amici e di sperimentare quel senso di umanità e di solidarietà internazionale che è capace di perdurare anche nelle situazioni geo-politiche più complesse del pianeta. Nel giugno di quell’anno il fotografo trascorre tre settimane con i compagni afghani, comunicando con un linguaggio fatto di segni e gesti.

Dell’Afghanistan McCurry porta con sé il senso di semplicità, l’essenzialità connaturata alla vita di stenti che accompagna i protagonisti di una guerra. Nel suo primo viaggio il fotografo americano realizza esclusivamente immagini in bianco e nero, impiegando una pellicola Kodak Tri-X ad alta velocità. Nella messa in posa dei soggetti e nell’intensità che trapela da molti sguardi si intuisce già lo stile futuro del McCurry “a colori”, capace, come pochi altri, di stabilire un profondo e unico legame tra il fotografo e il suo soggetto.

"Tutto avrei immaginato, ma certo non il suo immediato desiderio, appena uscito alla luce del sole, di accendersi una sigaretta"

Foto
Pol-e-Khomri, Afghanistan, 2002 ©Steve McCurry
McCurry torna in Afghanistan innumerevoli volte, spesso al servizio di riviste internazionali. Ogni viaggio rischia di compromettere la sua vita ma egli dimostra sempre di accettarlo senza compromessi.

Una delle sue ultime esperienze risale al 2002, anno in cui viene scattata l’immagine qui riportata.
Siamo di fronte ad uno dei suoi ritratti indimenticabili. L’opera fa parte di un lavoro di documentazione sulle miniere in Afghanistan. Il paese possiede infatti un terreno ricchissimo di minerali non ancora del tutto sfruttato; un luogo malsano in cui la gente vive in condizioni di povertà estrema. Siamo alle porte di una miniera di carbone e il protagonista dell’immagine era appena riemerso dal suo turno di 12 ore.

McCurry lo confessa: “Tutto avrei immaginato, ma certo non il suo immediato desiderio, appena uscito alla luce del sole, di accendersi una sigaretta”. E invece eccolo qui con la sua sigaretta e lo sbuffo di fumo.
Il suo sguardo è pieno di forza e dignità; la luce dei suoi occhi ipnotizza lo spettatore. La storia ci racconta di un uomo estremamente stanco, ma assolutamente non piegato dalle fatiche che la vita gli ha riservato.
Questa è la tempra degli afgani. Un popolo fiero, che non rinuncia alla sua dignità neppure nelle situazioni più avverse.

Articolo a cura di Daniel Buso
Per informazioni sulla mostra "Steve McCurry. Icons", premi il pulsante qui in basso 
INFO MOSTRA
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STORIE DELLA VERA CROCE

26/7/2021

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La Legenda Aurea di Jacopo da Varagine (1228-1298) racconta storie di guerre e conflitti originati da motivazioni religiose e culturali. Come durante l'epoca dell'Imperatrice Elena (III secolo), il nostro presente non riesce a svincolarsi da queste problematiche. La ricerca di predominio e l'imposizione di determinate ideologie attraversano, destabilizzandolo, il nostro tempo.

Foto
Fig.1 Piero della Francesca, "Ritrovamento delle tre croci e verifica della Croce", 1453-1464, Basilica di San Francesco, Arezzo
La storia sistematicamente deviata verso il conflitto è il contenuto di una grande opera d'arte contemporanea intitolata Le Storie della Vera Croce. L'autore è Luigi Presicce, il cui progetto, composto da un ciclo di dieci videoinstallazioni, è stato recentemente protagonista di un'importante mostra negli spazi del Mattatoio di Roma.

Il ciclo di Presicce trae la sua ispirazione dalla fluida narrazione di Jacopo da Varagine che nel XIII secolo raccolse un'infinità di aneddoti sulla storia del cristianesimo. A questa incredibile fonte iconografica, e in particolare alle Storie della Vera Croce, si è ispirato anche Piero della Francesca (1416-1492) nella realizzazione di uno dei cicli pittorici più importanti dell'origine del Rinascimento in Italia: quello di San Francesco ad Arezzo.

Le storie di Luigi Presicce al Macro e di Piero della Francesca ad Assisi sono l'argomento di questo articolo: un viaggio in due epoche così distanti della storia dell'uomo, benché tristemente accomunate da violenza e instabilità.

Il grande pittore toscano, primo utilizzatore consapevole della prospettiva in arte, è estremamente fedele al testo e si limita a presentare gli episodi sacri con spirito didascalico. Luigi Presicce parte dalle storie del Sacro Legno per dar vita ad un racconto più complesso in cui il tema delle guerre di religione attraversa diverse epoche storiche. 

"Una specie di tentativo di riconciliazione religiosa per essersi arricchito in modi non del tutto tollerati dalla Chiesa"

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Fig.2 Piero della Francesca, "La morte di Adamo", 1453-1464, Basilica di San Francesco, Arezzo
La Basilica di San Francesco ad Arezzo è una sobria costruzione trecentesca, costruita in pietre e mattoni. La sobrietà (francescana) dell'esterno è presto superata dalla fastosità del ciclo di affreschi (in larga parte lacunosa) che ci accoglie appena varcata la soglia di ingresso.

Il nostro sguardo è subito catturato dalla Cappella maggiore nel presbiterio. Qui, tra il 1453 e il 1464, Piero della Francesca vi dipinse il celebre ciclo di affreschi delle Storie della Vera Croce. Iniziato dal pittore Bicci di Lorenzo, divenne un capolavoro della pittura rinascimentale grazie all'intervento del suo erede.

La genesi del ciclo è datata 1417. In quell'anno morì Baccio di Maso Bacci (ricco mercante aretino) che lasciò un generoso capitale per la decorazione del coro. Una specie di tentativo di riconciliazione religiosa per essersi arricchito in modi non del tutto tollerati dalla Chiesa; come il prestito, ritenuto peccati di usura. Trent’anni dopo l'erede Francesco Bacci commissionò all’anziano artista fiorentino Bicci di Lorenzo (di stile tradizionale) la realizzazione dell'opera. La morte colse il pittore nel 1452, lasciando libero spazio all'iniziativa di Piero della Francesca.

Assai trascurate in passato, le opere vennero “riscoperte” solo alla metà dell’Ottocento quando si risvegliò l’interesse per questo grande maestro da parte di viaggiatori inglesi. Costoro, dopo aver ammirato il suo Battesimo di Cristo alla National Gallery di Londra, si riversarono ad Arezzo e a Sansepolcro per apprezzare la sua “laicità”: ovvero la nuova scienza prospettica e l’ispirazione, che secondo loro, derivava dall’arte greca. Lo stesso Degas, visitando Arezzo, trasse ispirazione per le sue opere classicheggianti.

"In hoc signo vinces"

Foto
Fig.3 Piero della Francesca, "Il sogno di Costantino", 1453-1464, Basilica di San Francesco, Arezzo
Le Storie della Vera Croce di Piero della Francesca coprono un vasto arco cronologico: dalla Genesi fino al 628 d.C., quando il legno della Croce, dopo il furto, venne riportato a Gerusalemme. La scelta del soggetto è motivata dalla grande adorazione che i francescani provavano per la Croce. La visione del Cristo sulla Croce da parte di Francesco d’Assisi era stata il culmine della sua vita religiosa, premiandolo con il contrassegno delle celebri stimmate.

L'episodio di partenza del racconto pierfrancescano è la 
Morte di Adamo [Fig. 2]. Il primo uomo sta per morire ed è accasciato sulla destra dell'affresco con l’anziana Eva alle sue spalle. Il figlio Set (sullo sfondo) sta per ricevere dall’arcangelo Michele il germoglio dell’Albero della Conoscenza. Dall’albero, che visse fino ai tempi di Salomone (900 a.C.), nascerà il legno per la Croce di Cristo, fonte di grande dolore per generazioni di esseri umani.

Nel Ritrovamento delle tre croci e verifica della Croce [Fig.1] si vede l'Imperatrice Elena che ha appena ritrovato la croce di Gesù e quelle dei due ladroni. Non riuscendo a capire quale possa essere quella di Cristo, le fa esporre sopra il cadavere di un giovane appena morto. Costui miracolosamente risorge allorché viene a contatto con la sacra reliquia. A quel punto Elena e il suo seguito si inginocchiano adoranti. Segue un episodio meno nobile e che rischia, secondo la sensibilità odierna (e non solo), di mettere in cattiva luce l'imperatrice: mi riferisco alla Tortura dell’ebreo. La Croce, dopo la morte di Cristo, è stata sepolta e solo un ebreo di nome Giuda è a conoscenza del luogo. Per obbligarlo a parlare Elena lo fa calare in un pozzo, lasciandolo lì dentro fino a quando vorrà parlare.

Due concitate scene di battaglia (Battaglia di Eraclio e Cosroé e Vittoria di Costantino su Massenzio) ci conducono all'affresco più famoso dell'intero ciclo, tra i più celebri di tutta la storia dell'arte.
 Il Sogno di Costantino [Fig.3]. Nella scena vediamo un angelo portare in sogno a Costantino, addormentato nella sua tenda di notte, la rivelazione della Croce e della vittoria su Massenzio a patto della sua conversione. L’Angelo gli porta una minuscola croce, simbolo dell’In hoc signo vinces.  Costantino apporrà il segno della croce sulla divisa dei suoi soldati e vincerà le future sfide militari . L'episodio, retrospettivamente, può essere letto come l'inizio del militarismo cristiano. Il momento fondamentale in cui i rappresentati di questa religione votata alla pace "tradiscono" definitivamente la parola del loro profeta.

Il Sogno di Costantino, al di là di ciò che rappresenta, è la prima veduta notturna pienamente convincente dell’arte europea prima di Caravaggio. Solo in seguito si scoprì che Piero voleva dipingere un’alba.

"Un racconto serrato e visivamente travolgente"

Foto
Fig.4 Luigi Presicce, "La morte di Adamo" da "Le Storie della Vera Croce", MACRO, Roma, 9 febbraio - 2 maggio 2021
Muovendosi tra diversi media espressivi (performance, tableaux vivants, pittura, video), Luigi Presicce costruisce la sua complessa narrazione accostando mitologia, storia, superstizione e religione. L'ispirazione, come in Piero della Francesca, proviene dalle Storie della Vera Croce di Jacopo da Varagine.

Il linguaggio dell'arista contemporaneo (1976) è costruito tramite una continua trama di citazioni e rimandi a diversi repertori iconografici. La cultura popolare, la storia antica e contemporanea, la storia della religione e l'esoterismo fungono da bacino a cui attingere in modo del tutto libero.

Al centro di tutto vi è l'uomo, raccontato nella sua esistenza storica e materiale spesso incline alla violenza e al non sense, ma al tempo stesso rappresentato nella sua nobile tensione vero la spiritualità. La mostra di Roma raccoglie dodici performance realizzate a partire dal 2012, liberamente ispirate agli affreschi di Piero della Francesca.

L'episodio della Morte di Adamo presenta [Fig.4] una rispondenza iconografica attenta all'opera omonima di Piero [Fig.2]. Nella bocca del primo uomo è piantato l'Albero della Conoscenza, destinato a produrre il materiale per la Vera Croce. Sullo sfondo un moderno Adamo riceve dall'arcangelo l'Albero, mentre sulla sinistra una coppia di performers regge il modellino del Tempio di Salomone; destinato in altri tempi a divenire sede dei terribili Templari.

Il racconto di Luigi Presicce prosegue con le vicende relative all'Imperatrice Elena e l'In hoc signo vinces che condusse alla vittoria in battaglia l'esercito di Costantino. La scelta di fregiarsi di un simbolo divino per basse ragioni politiche si ritrova tale e quale nella decisione di Hitler di assumere il simbolo della Svastica, uno dei segni più antichi e magici della storia dell'esoterismo indoeuropeo.

I video di Presicce sono magnetici e ricolmi di simbologie. Un racconto serrato e visivamente travolgente sostenuto da un'estetica formale calibrata e estremamente appagante.

Non è ovviamente possibile affermare quale dei due cicli sia meglio riuscito, dal momento che entrambi sono perfettamente rappresentativi dell'epoca in cui sono stati prodotti. Elegiaco e didascalico, seppur esteticamente rivoluzionario, quello di Piero della Francesca. Critico e demistificatore quello di Luigi Presicce, in un'epoca in cui gli artisti possono giocare un ruolo politico e sociale di guida, illuminando il buio che ci circonda.

Articolo a cura di Daniel Buso
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UN WEEKEND ROMANO

21/7/2021

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"Può la passione per l'Arte sconfiggere la calura estiva?"

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Fig.1: Gabriele Galimberti, "Portrait", World Press Photo 2021, MACRO, Roma
In un periodo tormentato in cui mostre e musei sono sempre a rischio di chiusura anticipata, noi di ARTIKA approfittiamo di ogni momento disponibile per immergerci nell'Arte. Incuranti delle temperature sahariane abbiamo trascorso due giorni nella capitale con un unico scopo: visitare mostre e musei!

Passata la sbornia per le prodezze calcistiche, Roma si presenta smagliante colpita da una luce tersa che la rende divina, in linea con la sua eternità. Passeggiare per le vie, solitarie rispetto agli standard pre-Covid, è impresa ardua in questa stagione. Di conseguenza confluiamo nelle strutture espositive alla ricerca di stimoli culturali e di aria condizionata.

Le tappe di questi due giorni sono serrate e il mio resoconto, oltre a cercare di convincere chi legge a ripercorrere il percorso, si muove senza un preciso ordine cronologico, mescolando stili e periodi della storia dell'arte dal Rinascimento ad oggi. Qui in breve le esposizioni visitate: la Galleria Doria Pamphilj a pochi passi dal Vittoriano, la mostra del contemporaneo Nico Vascellari alla Fondazione Nicola del Roscio , e il World Press Photo al Macro.

"Dove conduce la sete incontrollata di ricchezza"

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Fig.2 Quinten Massys, "I vecchi avari", 1490-1530, Galleria Doria Pamphilj, Roma
La Galleria Doria Pamphilj, pur centralissima in Roma, è uno scrigno traboccante di preziose opere d'arte leggermente distante dai flussi turistici di massa. Un Palazzo strepitoso, un concentrato di arte e di storia che riflette la grandezza di alcune tra le più grandi famiglie nobiliari italiane. La Galleria deve il suo aspetto attuale agli interventi voluti dal principe Camillo Pamphilj tra il 1731 e il 1734.

Le sale raffinate sono un tripudio di tappezzeria, stucchi, marmi, soffitti affrescati e, ciò che più ci interessa, dipinti realizzati tra il Quattrocento il Settecento. L'emozione per gli spettatori è diversa rispetto a quella di un normale museo. Si ha la possibilità di rivivere l'atmosfera autenticamente vissuta dai nobili ospiti che ebbero l'opportunità di sostarvi nella seconda metà del Settecento.

La famiglia Pamphilj è ancora proprietaria dell'immobile e delle meraviglie ospitate al suo interno, ma ha deciso di rinunciare alla superba contemplazione privata per consentire a tutti di beneficiare delle bellezza ospitata. In tal senso dimostrando più fedeltà agli ideali dei rivoluzionari napoleonici rispetto che alla bramosia personalistica di generazioni di aristocratici.

I dipinti riempiono letteralmente ogni spazio disponibile a parete e, dopo un inizio incerto con opere minori di Federico Barocci e Mattia Preti, entriamo subito nel vivo con una bellissima Creazione degli animali attribuita a Jan Brueghel. All'alba del Seicento il maestro fiammingo non rinuncia alla particolare verve creativa dei suoi connazionali accostando ad animali reali bestie immaginarie i cui profili sembrano emergere dai recessi di una mente contorta.

A Brueghel seguono in rapida successione, e forse in alcuni casi con attribuzioni forzate, mitologie di Paris Bordon, alcuni notturni di Francesco Bassano, una Deposizione di Paolo Veronese, un raffinato doppio ritratto di Raffaello Sanzio, i tre Caravaggio (che sono poi i capolavori imperdibili del percorso espositivo) e poi ancora ritratti psicologici di Lorenzo Lotto, una Sacra Conversazione di Giovanni Bellini e molto altro ancora. Il tutto esposto al di fuori di rigidi schemi cronologici o narrativa ma seguendo, pare, il gusto personale delle personalità che li collezionarono.

Senza dimenticare il rubicondo Innocenzo X di Vá
lzquez (a cui, opportunamente, è stata dedicata una sala privata), mi soffermo brevemente su di un'opera squisita: I vecchi avari (fig.2) di Quentin Massys. Il pittore è fiammingo, vissuto tra la seconda metà del Quattrocento e i primi decenni del secolo successivo. Tra i titoli delle sue opere troviamo Gli esattori o Il banchiere e sua moglie, quasi a suggerirci una specializzazione nel rappresentare i pionieri del capitalismo moderno. Massys è cantore di un'umanità diversa rispetto a quella raccontata dagli artisti coevi della penisola. Da lui i committenti non sono aristocratici o prelati in odore di santità ma ricchi borghesi.

Nel dipinto in oggetto (I vecchi avari), però, non troviamo l'elegia di una personalità dominante, bensì l'espressione della corruzione di un mondo in cui il denaro è più importante dell'uomo. I protagonisti hanno fattezze spiacevoli e sguardi avidi, ma la loro bruttezza è tutta interiore: la bramosia del possesso di fredde monete metalliche li ha svuotati di spiritualità e di umanità.

​Un dipinto che è specchio di un'epoca buia la quale, azzardo, perdura ancora oggi. Forse le opere di Massys dovrebbero essere insegnate nei programmi di storia dell'arte fin dall'infanzia, per mostrare alle nuove menti dove conduce la sete incontrollata di ricchezza.

"Il numero uno"

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Fig.3 Veduta della Fondazione Nicola del Roscio con, al centro, il parallelepipedo rosa di Nico Vascellari, Roma
Dopo l'immersione nella storia della famiglia Pamphilj e relativa parata di capolavori classici ci spostiamo verso la Fondazione Nicola del Roscio. Siamo sempre nel cuore di Roma, tra Piazza di Spagna e via del Tritone. Si tratta di uno spazio di arte contemporanea, istituito per valorizzare e raccontare in modo innovativo la creatività del presente e del futuro.

Un elegante edificio degli anni Venti, in via Francesco Crispi 18, ospita un vasto spazio espositivo di 700 metri quadrati. Prima di questo weekend non la conoscevo, mea culpa! Aperta nel 2019, la Fondazione è al suo quinto progetto espositivo, sempre a cura di Pier Paolo Pancotto.

Protagonista di questa incerta estate 2021 è l'artista veneto Nico Vascellari. Nato a Vittorio Veneto nel 1976, vive e lavora tra Roma e New York. Di lui si parla molto negli ultimi anni: performer, artista visivo, musicista con i suoi  Ninos du Brasil . Nico è stato definito dalla dea della performance, Marina Abramović
: "il numero uno".

Il suo lavoro è puro dinamismo. Vascellari si muove instancabilmente tra diversi strumenti espressivi, mescolando linguaggi creativi che dal video lo portano al collage, l'installazione e la performance. Recentemente si è reso protagonista di un'esperienza unica, figlia del lockdown: il progetto IONOI. 20 performance in 20 venti giorni consecutivi in 20 regioni d'Italia. Quando musei, cinema e teatri erano chiusi, i Ninos du Brasil hanno prodotto e mostrato Arte nelle case di chi li ha accolti.

Negli spazi della Fondazione del Roscio, Vascellari presenta qualcosa di diverso rispetto a ciò a cui ha abituato il suo pubblico. La frenesia si trasforma in quiete, il vitalismo in contemplazione. Roma gli dedica una prima antologica come vuole la tradizione. Il visitatore non partecipa ma osserva e passa da un'opera all'altra seguendo una logica che rassomiglia più a un museo che a un cantiere creativo.

Vent'anni di attività artistica, dai primi lavori (lasciati ad uno stadio progettuale per mancanza di fondi) alle performance che gli hanno acceso i riflettori addosso. Grazie alla narrazione museale, quelle prime opere si tingono di romanticismo. Immaginiamo il giovane artista impegnato a progettarle, ben sapendo che non avrà i mezzi per costruirle. Oggi ci sono, completate tra il 2020 e il 2021, e qui "ripresentate" o più semplicemente "presentate" per la prima volta gli occhi del pubblico.

All'ingresso un meccanismo automatizzato schiaccia metodicamente dei pupazzi gommosi facendo loro emettere un suono che risulta disturbante. Al centro della sala un monumentale parallelepipedo rosa si aziona al nostro passaggio, mettendo a rischio l'incolumità del visitatore distratto. E poi ancora una selezione di opere che flirtano con l'immaginario Pop mischiando brand commerciali che sfruttano e stravolgono il corpo degli animali e prodotti di consumo che appaiono in sovrabbondanti forme capaci di nausearci alla maniera di Oldenburg (opere quest'ultime in cui la materia prima è la cioccolata pasquale).

Nico Vascellari non è un artista puramente concettuale, poiché lancia quasi sempre un forte messaggio socio-politico. La mostra è il ritratto di un artista impegnato che ambisce a ricavarsi un ruolo di assoluto protagonista del nostro secolo. Affrettatevi! L'esposizione è visitabile fino al 25 settembre 2021.

"Gli umani non sono soli in questo pianeta"

Foto
Fig.4 Jasper Doest, "Ollie and Dollie", fotografia, World Press Photo 2021, MACRO, Roma
Chiudo il mio racconto odierno con l'ultima tappa del piacevole weekend capitolino. Come anticipato nell'introduzione, ci siamo trasferiti nel rione Testaccio, quartiere traboccante di murales realizzati da grandi artisti come Blu e Roa. Nel quartiere svetta trionfante l'agglomerato di edifici industriali che hanno ospitato un tempo il lugubre mattatoio della città e che oggi, in parte ristrutturati, accolgono il celebre MACRO.

Spazio interamente votato al contemporaneo, il MACRO sforna progetti di interesse internazionale e ospita spesso residenze di artisti provenienti da tutto il mondo. Recentemente ha accolto un progetto sperimentale di Luigi Presicce, di cui parlerò nel prossimo articolo del Blog di ARTIKA. Oggi mi soffermo invece sulla mostra fotografica che sarà visitabile fino al 22 agosto 2021: il World Press Photo.

Il premio è giunto alla 64° edizione! Un vero e proprio polo di attrazione che ha visto coinvolti 4315 fotografi da 130 paesi, per un totale di 74.470 immagini presentate. Un lavoro sovraumano da parte della giuria che ha pazientemente selezionato le 141 foto finaliste, visibili alle pareti dell'ex macello. 

Politica, società, cambiamento climatico, pandemia e guerre. Praticamente tutti gli argomenti salienti dell'attualità sono stati sviluppati dai fotografi che hanno passato le selezioni. Nel complesso una mostra che suscita un vortice di emozioni. Dal profondo scoraggiamento per i mali che affliggono il nostro tempo, alle lacrime che scaturiscono per la profonda bellezza di gesti che svelano il vero senso dell'esistenza ai quattro angoli del pianeta.

Le opere più drammatiche sono anche quelle su cui il nostro occhio si sofferma di più. Come sempre, la tragedia ci spinge a indugiare: tra un vago desiderio morboso di contemplare l'inaudito e la trascinante empatia che ci porta a solidarizzare con le sfortune altrui. Storie di detenuti trattenuti ingiustamente per ragioni politiche, l'esperienza di un uomo transgender nella fredda (per clima e chiusura al diverso) Russia, sciami di locuste che invadono il Kenya (in piena spirito apocalittico), gli occhi straziati di un maiale in un allevamento intensivo, le persone reali dietro al movimento Black Lives Matter e ancora gli angoscianti campi profughi ai margini dell'Occidente. C'è spazio anche per il Covid e le repressioni poliziesche nelle fragili democrazie sudamericane. 

Ma l'immagine su cui desidero soffermarmi è quella che vi riporto in foto (fig.4). Una coppia di piccioni selvatici ha fatto amicizia con la famiglia del fotografo, durante il lockdown in Olanda. Ollie e Dollie, li hanno chiamati; due presenze abituali in casa a ricordare che gli umani non sono soli in questo pianeta.

Articolo a cura di Daniel Buso

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GALLERIE DELL'ACCADEMIA. PARTE 5

6/4/2021

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"I nuovi volti della scena dell'arte veneta"

Il nostro precedente articolo [che potete recuperare a questo link: PARTE 4] era incentrato, necessariamente, sulla figura del grande Tiziano Vecellio. Il pittore cadorino, nel 1516,  raccoglie l'eredità di Giovanni Bellini (appena deceduto) e si impone come protagonista indiscusso della scena artistica lagunare.

La sua fama travalica presto i confini della Serenissima, diffondendosi in tutta l'Italia settentrionale, e poi ancora più in alto verso la corte di Carlo V Imperatore e subito dopo presso il figlio Filippo II Re di Spagna. La generazione dei Cima e dei Palma il Vecchio sta scomparendo, Giorgione è già tristemente morto, mentre Sebastiano del Piombo si è installato a Roma. Tiziano sembra non avere rivali e domina!

Ciononostante i committenti a Venezia continuano ad essere voraci di opere d'arte e si crea necessariamente tanto spazio per i talenti emergenti di cui parliamo in questa PARTE 5 alla scoperta delle Gallerie dell'Accademia. I nuovi volti della scena dell'arte veneta sono Veronese, Tintoretto e Lorenzo Lotto.

"La ricchezza e la potenza di Venezia provoca alla città terribili inimicizie"

Foto
Fig.1: "Veduta prospettica della città di Venezia e della laguna", Hogenberg, Colonia, 1572
Prima di lasciarci trascinare dalla inebriante bellezza delle opere nelle Gallerie dell'Accademia, è opportuno un breve capitolo dedicato alla storia Serenissima nella prima metà del Cinquecento. Iniziamo dicendo che la ricchezza e la potenza di Venezia provoca alla città temibili inimicizie.

Dopo aver ottenuto il controllo dell’importante isola di Cipro, grazie a Caterina Cornaro, nuovi scontri con gli Ottomani portano presto la Serenissima a perdere importanti basi in Oriente. In Europa, Francia e Spagna sono ormai due consolidati stati nazionali capaci di mutare gli equilibri del continente. Carlo VIII di Francia dilaga in Italia, mentre la Spagna nel 1504 ottiene il controllo del regno di Napoli. Venezia si muove con astuzia politica e ottiene importanti città come Faenza e Rimini, strappandole all’autorità papale.

Sembra che la sorte arrida ai Veneziani ma in quegli stessi anni inizia a organizzarsi una formidabile coalizione contro di essa. Francia, Impero e Spagna si accordano e identificano lo stato veneto come merce di scambio. Nel 1509 i Francesi iniziano le ostilità sull’Adda, l’Impero dilaga in Veneto da nord e gli Spagnoli riprendono possesso delle colonie veneziane in Puglia. Giulio II (il Papa) si intromette e lancia la scomunica contro la città. Il 14 maggio 1509 è una triste giornata da ricordare per i Veneziani drammaticamente sconfitti ad Agnadello.

La situazione appare ancora peggiore rispetto a quella vissuta con la guerra di Chioggia del Trecento. Molte città sottoposte al giogo veneziano si aprono subito ai nuovi dominatori. A salvare la situazione concorrono diverse circostanze. Innanzitutto il realismo e il pragmatismo dell’azione politico-diplomatica veneziana che punta a dividere il fronte dei nemici. Al Papa vengono restituite molte città sottratte, ma soprattutto viene convinto che i Francesi possono diventare un nemico peggiore dei Veneziano. Giulio II istituisce così la lega santissima (1511) alleandosi con la Spagna e Venezia in chiave anti-francese.

Questi sono gli anni degli Asburgo che tra il 1516 e il 1519 realizzano l’immensa unificazione dei territori spagnoli e imperiali per vie ereditarie nelle mani di Carlo V. Venezia dal canto suo si muove instancabilmente alleandosi ora con la Francia, ora con Carlo V e riesce ad avere un ruolo chiave al congresso di Bologna che nel 1530 ridefinisce i confini della penisola e conferma lo “stato da terra” dei Veneziani. L’Italia avrà confini abbastanza stabili con la celebre pace di Cateau-Cambrèsis del 1559: che rende la Spagna vera dominatrice della penisola con aree di influenza in Lombardia, nel Regno di Napoli, in Sicilia e in Sardegna.

Nella generale crisi delle libertà italiane, l’indipendenza dello stato veneto è stata salvata. A Venezia, a questo punto della storia, c’è la capacità di elaborare un'azzeccata presa di coscienza storica delle dimensioni limite entro le quali la Repubblica può continuare a vivere. Venezia diventa così stato libero e neutrale. Le parole d’ordine sono “raccoglimento” e “distacco”. Questa politica verrà portata avanti con successo per più di due secoli.

"Anticipazione del ritratto moderno"

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Fig.2: "Ritratto di giovane gentiluomo", Lorenzo Lotto, anni '20 del Cinquecento, Venezia, Gallerie dell'Accademia
Con questa breve premessa storica in mente torniamo ad attraversare le sale delle Gallerie dell'Accademia, con la consapevolezza di essere di fronte al risultato di una società che vede l'arte come uno strumento di promozione politica. L'immagine che Venezia trasmette al mondo è di un luogo raffinato, la cui potenza è tale soltanto nelle opere.

Lorenzo Lotto è un raffinato interprete della pittura lagunare. Come sappiamo però, la competitività di Tiziano gli rende estremamente difficile ricavarsi una nicchia di mercato. Il suo stile, inoltre, risulta spesso incompreso per quel magico realismo di sentimenti e quella stesura cromatica morbida che non si adattano al linguaggio del pittore ufficiale della Serenissima.

Il museo veneziano in cui ci troviamo ospita una sua pregevole tela, che ritrae un giovane gentiluomo in abito scuro [Fig.2], colto nell'attimo in cui pensieri malinconici lo distolgono dalla lettura. La luce proviene da destra e rischiara la bellissima natura morta sullo scrittoio. Il calamaio, il ramarro, la lettera col sigillo spezzato sono tutti oggetti carichi di significato simbolico.

Alle sue spalle il corno e il liuto probabilmente alludono al rifiuto dei piaceri della gioventù in nome di una vita dedita allo studio. L'espressione trepidante del soggetto e le sue lunghe mani nervose sono gli elementi che contribuiscono alla profonda intensità della tela. L'acuta introspezione psicologica, di cui fa sfoggio l'artista, pongono l'opera come anticipazione del ritratto moderno.

Lotto non dipinge imperatori e papi, ma personaggi della piccola nobiltà o borghesi in ascesa. Per lui ciò che conta non è l'ufficialità della posa o la trasmissione del ruolo politico. I suoi ritratti ricercano il dialogo tra la personalità della figura rappresentata e l'emotività di chi li osserva, allo scopo di costruire un confronto umano tra le due parti. Il ragazzo in esame ci guarda e con il movimento del corpo ci introduce nella sua attività, comunicandoci la sua interiorità a distanza di secoli.

"L'autonomia del colore si unisce al disegno"

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Fig.3: "Miracolo dello schiavo", Jacopo Tintoretto, 1547-1548, Venezia, Gallerie dell'Accademia
Uno dei massimi rinnovatori del Rinascimento veneziano è Jacopo Robusti, detto il Tintoretto. Sulla base solida della tradizione di Giorgione e Tiziano, Tintoretto inserisce la cultura figurativa del Manierismo.  L'autonomia del colore si unisce al disegno, in una armoniosa compenetrazione tra linguaggio veneto e cultura fiorentina.

L'apice della sua fervida operosità si può ancora oggi ammirare nella Scuola Grande di San Rocco, per cui realizza il grande ciclo pittorico tra il 1564 e il 1587. Tutta Venezia continua a vivere del gesto e dell'impeto del furioso tentor ed ogni passeggiata a Venezia ci porta immancabilmente a scoprire almeno una chiesa in cui è contenuto un suo capolavoro.

Le Gallerie dell'Accademia ospitano diversi suoi dipinti, appartenenti a periodi distinti della sua attività. Tra i più significativi vi è il Miracolo dello schiavo [Fig.3], opera che segna la sua maturazione alla data 1548. Il dipinto, assai discusso fin dal momento della sua esposizione nella Scuola Grande di San Marco, gli permette di incontrare i favori del grande pubblico.

Già in questa fase precoce Tintoretto guarda a Michelangelo e ne rielabora con visione personale l'energia compositiva. Il suo linguaggio è provocatoriamente innovativo. In quest'opera tutto è teatrale: dal monumentale impianto scenografico all'abile regia con cui sono disposti i personaggi nelle loro elaborate movenze.

L'opera rappresenta uno dei miracoli compiuti da San Marco dopo la morte. Il santo patrono di Venezia intercede presso gli umani con lo scopo di liberare uno schiavo dalla pesante tortura a cui era stato condannato da un signore di Provenza, rappresentato su un alto trono a destra. L'apparizione del santo, al centro, provoca lo spezzarsi degli strumenti del martirio generando scompiglio nei presenti.

L'intenso passaggio tra zone di luce e zone d'ombra, che si viene a creare nel dipinto, garantisce la messa in scena di qualcosa di assolutamente inedito per i Veneziani della metà del Cinquecento. Allo stupore (e in alcuni casi all'indignazione) farà presto seguito un'ammirazione pressoché incondizionata che lo porterà ad essere protagonista di indimenticabili cicli pittori nella sua città.

"Teatralità e ricchezza"

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Fig.4: "Convito in casa di Levi", Paolo Veronese, 1573, Venezia, Gallerie dell'Accademia
Nella grande civiltà pittorica veneziana, Paolo Veronese occupa un posto di primissimo piano. Il suo stile è chiaramente distinguibile per la particolare armonia data dalle tinte limpide, brillanti e per la trasparenza delle atmosfere. I suoi mezzi espressivi e il suo modo di rappresentare le figure saranno grande fonte di ispirazione per la pittura del Settecento.

Il capolavoro assoluto che vi propongo in questa sede è il gigantesco Convito in casa di Levi [Fig.4], capace di svilupparsi lungo una superficie orizzontale di tredici metri. Il titolo è fuorviante, esso infatti rappresenta l'Ultima cena. La storia ci racconta come Veronese sia stato costretto a cambiar nome al dipinto a fronte di una contestazione da parte del pericoloso Tribunale dell'Inquisizione. Il motivo della censura è legato alla presenza di alcuni particolari ritenuti immorali: cani, pappagalli, uomini ebbri e nani.

L'uso del chiaroscuro è ridotto al minimo. La composizione è interamente realizzata con colori chiari e luminosi. Come Tintoretto, anche Veronese si dimostra sensibile alle novità del Manierismo e si sofferma con cura nel modellare i corpi e gli abiti, rendendo così i personaggi perfetti e monumentali.

L'ambientazione è signorile. Veronese concepisce la scena in un palazzo di stile classico cinquecentesco con architetture ricche e sontuose. Tutti i personaggi indossano abiti contemporanei al pittore, fatta eccezione per Gesù abbigliato con la consueta veste coperta da un mantello.

Teatralità e ricchezza: con queste due parole si può riassumere l'impatto di Veronese. Le figure compiono movimenti frizzanti estremamente credibili nei loro abiti sfarzosi. La sontuosità della scenografia ci colloca virtualmente dentro ad una ricca abitazione veneziana riservando all'episodio sacro una posizione simbolicamente marginale.

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Con Veronese chiudiamo questa quinta parte del racconto delle Gallerie dell'Accademia. Vista la brevità del format, ai tre grandi maestri è stata riservata una "drammaticamente" piccola finestra. Ci rifaremo nei nuovi articoli in cui mi soffermerò in modo più analitico su ogni singolo artista.

Il mese di aprile sarà dedicato ad ARTIKA+ con i tre webinar dedicati alla "Primavera di Venezia. Dal Gotico al Rinascimento" (13-20-27 aprile, ore 21:00).
Vi do quindi appuntamento a maggio con i nuovi articoli del Blog di ARTIKA!
Articolo a cura di Daniel Buso
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GALLERIE DELL'ACCADEMIA. PARTE 4

30/3/2021

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Anno 1510, muore Giorgione.
A questa data il Rinascimento a Venezia è un fatto compiuto.
Nel 1513 Tiziano scrive una lettera al potente Consiglio dei X, principale organo politico della città. Nel testo il pittore cadorino si offre di dipingere gratuitamente un'opera per Palazzo Ducale. In cambio chiede uno spazio vacante per aprirsi lo studio nel Fondaco dei Tedeschi.
L'episodio segna l'ingresso del Vecellio in un mercato che appariva chiuso dall'ingombrante figura di Giovanni Bellini.

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Fig.1: "Assunta", Tiziano Vecellio, 1516-1518, Frari, Venezia
Prima di tornare a solcare le sale delle nostre amate Gallerie dell'Accademia, vi propongo una breve deviazione nel sestiere veneziano di San Polo. Qui sorge l'imponente basilica gotica dedicata a Santa Maria Gloriosa, meglio nota come i Frari. Scrigno traboccante di capolavori artistici dove trovano riposo personaggi illustri della Serenissima come Antonio Canova, l'ambiguo Conte di Misurata (fondatore, tra le altre cose, di Porto Marghera) e, ovviamente, Tiziano.

Nel presbiterio troneggia, dal 1518 circa, l'imponente pala commissionata a Tiziano due anni prima. Sto parlando dell'Assunta, opera che rappresenta il primo squillo internazionale del Cinquecento veneto [fig.1]. La composizione è strutturata in tre ordini: gli apostoli in basso, stupiti ed agitati per l'evento miracoloso. In mezzo svetta la Vergine, investita da una luce potente e circondata da una folla di angeli in festa. In alto, chiude il cerchio, Dio Padre, il quale attira a sé la Donna con sguardo pieno d'amore.

L'aspetto tecnico-compositivo più efficace sta nella costruzione geometrica. Tiziano costruisce un triangolo di rossi (vedasi i due apostoli in basso e la vergine nel mezzo, oltre al dettaglio del mantello di Dio); triangolo che letteralmente trascina il nostro sguardo in un'estasi mistica verso l'alto.

L'opera segna la consacrazione definitiva dell'artista, ad appena tre anni dalla sua umile lettera di richiesta al Consiglio dei X, grazie alla sua clamorosa potenza visiva e alla sua intrinseca bellezza. La concitazione delle pose dei personaggi conferisce grande dinamismo alla composizione, mentre nella resa dei volti Tiziano esprime tutta la sua visione umanistica e autenticamente rinascimentale.

"Uno dei soggetti più amati e diffusi nel Cinquecento veneto"

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Fig.2: "Madonna col Bambino e san Giuseppe tra i santi Giovanni Battista e Caterina d'Alessandria", Palma il Vecchio e Tiziano Vecellio, Gallerie dell'Accademia, Venezia
Oltre alla onnipresente bottega di Bellini, Tiziano ai suoi esordi si confronta con un altro pittore della generazione precedente: Jacopo Negretti, detto Palma il Vecchio. Le Gallerie dell'Accademia ospitano un importante capolavoro che testimonia la collaborazione tra i due pittori.

La composizione è intitolata Madonna col Bambino e san Giuseppe tra i santi Giovanni Battista e Caterina d'Alessandria [fig.2]. Essa rientra nella tipologia delle "sacre conversazioni" di formato orizzontale, i cosiddetti quadri di Madonne di cui ho scritto nella seconda parte del mio racconto dedicato al museo veneziano [ACCADEMIA. PARTE 2].

La Madonna col Bambino + santi è senza dubbio uno dei soggetti più amati e diffusi nel Cinquecento veneto, prediletto principalmente dalla committenza privata. L'imponente formato di questa tela (quasi due metri di larghezza) suggerisce l'appartenenza ad un facoltoso veneziano, di cui purtroppo ci sfugge l'identità.

Le figure sono assembrate nel primo piano della composizione, senza il sostegno di una struttura architettonica. Ciononostante esse sono dipinte con straordinaria naturalezza ed esprimono tutta l'humanitas e la rappresentazione degli affetti che hanno reso estremamente dolce e piacevole la contemplazione dei dipinti di Tiziano Vecellio.

L'opera non è soltanto di Tiziano. Il dipinto viene iniziato da Palma il Vecchio, quindi, alla sua morte, si inserisce il pittore cadorino con la sua ventata di modernità. L'intervento di Tiziano si concentra principalmente nella testa e nel manto di Santa Caterina, oltre che nel paesaggio (non a caso i dettagli più affascinanti di tutta l'opera).

"La diffusione del Classicismo in laguna"

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Fig.3: "La presentazione della Vergine al tempio", Tiziano Vecellio, 1534-1538, Gallerie dell'Accademia, Venezia
Spesso non consideriamo che l'edificio che ospita le Gallerie dell'Accademia abbia avuto una vita prima di essere un museo. Qui si trovava il complesso della Carità, con l'omonima Scuola Grande dalle importanti funzioni di carità, assistenza e inclusività sociale per gli abitanti della città.

Tiziano dipinge questo capolavoro per i confratelli della Scuola, tra il 1534 e il 1538 [fig.3]. Siamo quindi in "presenza" di una delle rare opere pensate per questa sede e qui rimaste nei secoli. L'incontro virtuale non restituisce l'emozione ma i due rettangoli bianchi nella parte bassa della foto suggeriscono la presenza di due porte. Tiziano dipinge tenendo in considerazione solo quella di destra, dal momento che la sinistra verrà aperta più di un secolo dopo.

La scena è organizzata all'interno di un'ambientazione classicista. Siamo nel periodo in cui la moda per l'antico sta dilagando nella penisola italica. A Venezia il doge Andrea Gritti (in carica dal 1523 al 1538) propone la sua renovatio urbis incaricando ufficialmente Sansovino, il grande architetto fiorentino, massimo rappresentate del classicismo e predecessore di Andrea Palladio.

​La tradizionale scalinata con i 13 gradini (come 13 sono i cosiddetti "salmi graduali") è rappresentata efficacemente in scorcio dal basso fino all'ingresso del tempio. Qui Maria è attesa dal sommo sacerdote e da un uomo abbigliato come un cardinale del Cinquecento. La Vergine è contornata da un ovale di luce che evidenza la sua superiorità divina rispetto al resto dei personaggi dipinti.

L'assembramento alle sue spalle è significativo, con persone che si affacciano curiose dalle balconate per assistere all'episodio sacro. Oggi l'identità della maggior parte dei personaggi è sconosciuta (sono stati identificati solo i volti di due confratelli della Scuola della Carità); ma i contemporanei dovettero rimanere estasiati riconoscendosi con perfetto realismo tra le eleganti figure dipinte dal pennello di Tiziano.

"Non fu mai veduta cosa più bella né migliore, né di disegno né di colorito"

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Fig.4: "San Giovanni Battista", Tiziano Vecellio, 1540 c., Gallerie dell'Accademia, Venezia
"Non fu mai veduta cosa più bella né migliore, né di disegno né di colorito", così si esprime Ludovico Dolce, letterato, e grande estimatore di Tiziano, nel 1557, riferendosi a questo dipinto firmato "Ticianus" [fig.4]. Il Dolce prosegue celebrando soprattutto il disegno e il "colorito".

La figura si impone imperiosa al centro del dipinto, accompagnata dai suoi proverbiali attributi, ovvero l'agnello sacrificale (prefigurazione cristologica), la tunica in pelle di cammello e il crocifisso in legno povero. L'ambientazione è particolarmente suggestiva con la rupe che incombe sulla sinistra e il ruscello a destra che prorompe in una piccola cascata.
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L'anatomia del Battista è praticamente perfetta. Ogni singolo muscolo è stato definito con estrema cura e guardandolo con attenzione possiamo percepire la tensione del movimento di questo santo eccezionalmente atletico (soprattutto per un uomo in pellegrinaggio in lande deserte). La muscolarità rinvia all'influenza dell'arte di Michelangelo. Tiziano e il divino scultore si conosceranno qualche anno dopo questo dipinto, ma le riproduzioni delle sue opere circolavano già da tempo a Venezia.

Tiziano si presenta così come il perfetto punto di incontro tra la perfezione del disegno sviluppata nelle regioni centrali della penisola italica e il cromatismo autenticamente veneto. 

L'opera viene eseguita per la chiesa di Santa Maria Maggiore a Venezia. Nel 1807, a seguito delle soppressioni degli ordini religiosi, il dipinto avrebbe dovuto lasciare la città. Interviene a quel punto Pietro Edwards, tenace restauratore, il quale riesce a trasferire il San Giovanni Battista nei depositi da cui sarebbero nate le Gallerie dell'Accademia.

"La lezione dell'ultimo Tiziano sarà compresa molto tempo dopo"

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Fig.5: "Pietà", Tiziano Vecellio, 1575-1576, Gallerie dell'Accademia
Eccoci arrivati al testamento di Tiziano. Forse l'ultimissima opera dipinta dal grande maestro e destinata alla cappella del Cristo nella chiesa dei Frari, in cambio della concessione di esservi sepolto.

Il capolavoro, oggi alle Gallerie dell'Accademia, viene dipinto a partire dal 1575 [fig.5]. Siamo nel pieno di una terribile pandemia: la peste nel giro di un solo anno uccide un veneziano su tre. Tiziano è vecchio e solo. La sua vita professionale è stata un trionfo, ma la sua condizione umana è quella del sopravvissuto. Nell'avanzare della sua vecchiaia sono venute a mancare molte delle persone a lui care: prima fra tutte la moglie Cecilia (defunta già nel 1530). Quindi quella peste terribile si porta via il figlio prediletto, altrimenti destinato a diventare suo erede: Orazio Vecellio.

Tiziano lo segue a stretto giro, morendo appena un mese dopo. Non conosciamo nel dettaglio la storia dei suoi ultimi giorni, ma probabilmente l'assenza di affetti conduce rapidamente il corpo del Maestro alla consunzione. 

Nella Pietà vediamo l'autoritratto di Tiziano, inginocchiato ai piedi di Cristo, traslato nella figura penitenziale di Giuseppe d'Arimatea (o Nicodemo). La tecnica con la quale dipinge l'opera è straordinaria: caratterizzata da colori cupi stesi con pennellate ricche e veloci, vibranti di luce. La lezione dell'ultimo Tiziano sarà compresa molto tempo dopo, forse solo nell'Ottocento. Di questa breve parentesi stilistica ci rimane un'immagine emozionante (a metà tra storia e mito) in cui ci sembra di vedere l'anziano pittore, ormai praticamente cieco, che dipinge il suo capolavoro apponendovi il colore con le dita, oltre che con il pennello.

Il grande pittore cadorino non lascia allievi né figli capaci di perpetuarne il talento nei decenni successivi. Al figlio Pomponio basteranno soltanto cinque anni per dilapidare tutto il patrimonio di uno dei pittori più ricchi della storia.

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Bene! Siamo giunti alla conclusione del quarto capitolo dedicato alle Gallerie dell'Accademia. In questa circostanza vi ho parlato solo di Tiziano, ma il più grande artista del Rinascimento veneto meritava un capitolo tutto suo. Al nostro prossimo incontro affronterò la figura dell'artista che più di ogni altro è legato a Venezia: Jacopo Tintoretto. Mi soffermerò anche sul rapporto, spesso conflittuale, con il suo grande rivale: Paolo Veronese.
A presto quindi, con il nuovo capitolo del Blog di ARTIKA!

Articolo a cura di Daniel Buso
Se ti è piaciuto l'articolo non perderti i Webinar d'Arte dedicati alla "Primavera di Venezia".
Il primo webinar va in scena il 13 aprile alle ore 21.
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GALLERIE DELL'ACCADEMIA. PARTE 3

22/3/2021

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Alla fine del Quattrocento Venezia ha raggiunto la sua massima estensione territoriale. I grandi artisti, come Bellini e Vivarini, ne rappresentano lo gloria e la potenza.

​Nel frattempo, però, grandi potenze da Occidente e da Oriente tramano contro la città e ne metteranno a dura prova la stabilità lungo tutto il corso del Cinquecento.

Grandezza e decadenza! Tra questi due poli estremi scorre la vita in laguna.

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"Veduta di Venezia", Jacopo de' Barbari, 1500, Museo Correr, Venezia
Nel 1494 una ventata di novità spira dal Nord Europa. In quell'anno valica le Alpi un artista le cui incisioni riscuoteranno grande successo: Albrecht Dürer. La natura aspra e selvatica, da lui dipinta, appare subito più "vera" di quella plasmata dall'uomo, così come la si poteva vedere nelle opere di Giovanni Bellini.

L'incisione conosce così il suo periodo di maggior successo in laguna, anche se i primi esperimenti sono riconducibili al lontano 1425, da parte di Cristoforo Cortese. Il pittore veneziano che più si dedica a questa tecnica è Jacopo de' Barbari, che nel 1500 esatto realizza l'immortale pianta prospettica della città di Venezia [fig. 1].

La veduta riscuote, fin dalla sua prima apparizione, un entusiasmo unanime. L'impresa, costata più di tre anni di lavoro, viene affidata all'editore tedesco Anton Kolb che ottiene il privilegio di stamparla. Si tratta della prima veduta d'insieme realistica della città, ripresa a "volo d'uccello". Prima della stampa le immagini vengono sottoposte al vaglio del Consiglio dei X che ordina all'autore di alterare la disposizione dei canali, ma soprattutto di nascondere la reale conformazione dell'arsenale. Lo scopo della veduta è mostrare al mondo la sublimità di Venezia, senza svelarne però i segreti!

Nel 1495 arrivano a Venezia i trittici di Hieronymus Bosch (forse arriva prima lui, ma il viaggio non è provato). I riflessi della sua proverbiale fantasia allucinata riverberano nelle opere di alcuni artisti locali: Marcantonio Raimondi, il Savoldo e, soprattutto, Giorgione.​

"La costruzione di un'atmosfera unificata e piena di luce"

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Fig. 2: "Autoritratto come David", Giorgione, 1509-1510 c., Herzog Anton Ulrich Museum, Braunschweig
Negli anni di cui si va discorrendo, si compie la formazione di un genio: Giorgione, appunto. Il grande pittore da Castelfranco si distacca presto dal mondo figurativo costruito nei decenni da Giovanni Bellini, ne rifiuta lo stile e l'attenzione spasmodica (tipicamente inizio-rinascimentale) per la costruzione prospettica.

Nel costruire la sua particolare visione, Giorgione preferisce rivolgersi a Bosch, piuttosto che ai maestri lagunari. Progressivamente il pittore raggiunge così una sua dimensione che sarà celebrata in tutto il mondo: la costruzione di un'atmosfera unificata e piena di luce.

Un altro artista che lascia un'impatto fondamentale nel suo stile è Leonardo Da Vinci. Quest'ultimo visita la Serenissima e lascia traccia del suo passaggio tra il 1499 e il 1500. Vasari, il grande biografo del Rinascimento, ci ricorda: "aveva veduto cose di mano di Lionardo [...] e questa maniera gli piacque tanto che mentre visse sempre andò dietro a quella".

Il nuovo secolo si sta aprendo e sarà interamente segnato dalla bruciante carriera di Giorgione.

"Dipinse anche quello che non si può dipingere, tuoni, lampi e fulmini"

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Fig. 3: "Tempesta", Giorgione, 1502-1503 c., Gallerie dell'Accademia, Venezia
Il mondo di Giorgione è estremamente morbido, fatto sia di luci intense che colpiscono le forme, sia di ombre capaci di conferire misteriosità alle composizioni. La sua carriera accelera rapidamente anche grazie a una novità assoluta che l'Arte propone in questo periodo: ovvero l'imitazione della pittura antica.

La moda per l'antico deriva in parte dagli scavi archeologici contemporanei che portano alla luce importanti tesori del passato. Ma, d'altro canto, la passione per gli antichi si sviluppa sulla base di suggestioni letterarie ispirate a opere d'arte perdute per sempre e di cui resta flebile memoria nei manoscritti sopravvissuti, come la Naturalis historia di Plinio.

​Nella Tempesta Giorgione sembra cogliere la sfida di Apelle, il quale "dipinse anche quello che non si può dipingere, tuoni, lampi e fulmini". Inoltre, attraverso quest'opera, l'artista rivela la sua originalità: protagonista non è più un gruppo di figure con una storia precisa ma il paesaggio!

L'interesse che Giorgione ha per la natura è in linea con gli sviluppi della poesia a lui contemporanea. L'Arcadia di Sannazaro è, in tal senso, il manifesto programmatico di questa passione, che vede le stampe nel 1504 a Venezia.

La Tempesta 
è tra i dipinti più suggestivi della storia dell'arte, oltre ad essere tra i "pezzi" che rendono indispensabile una visita alle Gallerie dell'Accademia. Fiumi di inchiostro sono stati spesi in opere di un'opera che oggi, a più di 500 anni dalla sua nascita, continua a suscitare grandi emozioni e nodi interpretativi probabilmente inscioglibili.

"Più complessa rispetto alla consueta meditazione sulla morte e sul tempo che scorre"

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Fig. 4: "La vecchia", Giorgione, Gallerie dell'Accademia, Venezia
Oltre alla natura, un altro aspetto che rende estremamente moderno Giorgione è l'attenzione psicologica nel ritratto. A questi apici di introspezione arriverà anche Raffaello, un decennio più tardi, e Tiziano, che della maniera di Giorgione è il naturale continuatore.

Il fascino dello stile di Zorzi da Castelfranco non colpisce solo le nuove generazioni, anche le precedenti ne subiscono talvolta l'effetto magnetico. Mi riferisco a Giovanni Bellini (del resto sempre attento ad assimilare le novità), il quale testimonia il suo omaggio al nuovo genio nella monumentale Pala di San Zaccaria, ancora oggi esposta nella chiesa omonima.

​Le Gallerie dell'Accademia ci offrono la vista di uno dei pochi dipinti sicuramente autografi di Giorgione: La vecchia. Se non ne conoscessimo i passaggi ereditari, potremmo agevolmente confonderlo con un dipinto dell'Ottocento, un Courbet, ad esempio.

Il soggetto è estremamente particolare: un'anziana signora dipinta con assoluto, e per certi versi, impietoso, realismo. Il viso della donna mostra tutti i segni dell'età, dalle rughe alla dentatura imperfetta. Come sempre con Giorgione, un alone di mistero circonda l'opera.

Il dipinto appartiene al genere della vanitas, come suggerisce il cartiglio che tiene in mano il soggetto con la scritta "col tempo". Eppure, dall'inventario Vendramin del 1601 (dove si trovava il dipinto) compare un documento secondo il quale La vecchia sarebbe stata abbinata ad un'effige maschile andata perduta. Tale combinazione contribuiva, forse, ad una tematica più complessa rispetto alla consueta meditazione sulla morte e sul tempo che scorre.

"La sua mimica naturale suggerisce l'emissione di un canto"

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Fig. 5: "Il Concerto", Giorgione, 1507 c., Gallerie dell'Accademia, Venezia
In questi giorni le Gallerie dell'Accademia ospitano un motivo in più per andarci: Il Concerto di Giorgione. Si tratta di un prestito a lungo termine della collezione Mattioli. Il protagonista, al centro, è rappresentato a bocca aperta, con la fronte aggrottata e il capo roteato. La sua mimica naturale suggerisce l'emissione di un canto.

Come da migliore tradizione giorgionesca, l'opera è avvolta nel mistero. Questa tela cela tante storie, abitualmente visibili solo dai legittimi proprietari, ma che per cinque anni chiunque potrà godere a Venezia.

​Il dipinto è stato a lungo interpretato come una rappresentazione di carattere sacro. L'oggetto che il soggetto principale tiene in mano venne infatti confuso con una pietra. Da questo dettaglio si volle riconoscere nell'uomo l'eroe biblico Sansone, costretto a girare una macina dopo esser stato catturato. 

Più recenti indagini hanno invece dimostrato che l'oggetto in questione dovrebbe essere uno strumento musicale a corda rovesciato. Il cambio di prospettiva ha permesso di identificare l'opera come il dipinto chiamato "Tre grandi teste che cantano" di Giorgione nell'inventario di Gabriele Vendramin, noto committente del pittore da Castelfranco e di Tiziano.

"La persistenza del lessico di Giorgione"

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Fig. 6: "Visitazione", Sebastiano del Piombo, 1508 c., Gallerie dell'Accademia, Venezia
L'altro personaggio del nostro racconto odierno è Sebastiano Luciani, detto del Piombo. Egli è, probabilmente, allievo di Giorgione; anzi spesso i nomi dei due artisti si confondono nei tentativi di attribuzione. Sebastiano esordisce nel 1505 a Venezia nel solco della tradizione belliniana. L'influenza del maestro inizia a intravedersi qualche anno più tardi in alcuni particolari salienti come i gesti e le iconografie spesso ermetiche.

Sebastiano è un pittore capace di raggiungere un successo precoce; anche grazie ad alcune circostanze indipendenti dal suo talento. Innanzitutto il carattere defilato di Giorgione, che lo porta a privilegiare la committenza privata; in secondo luogo la non-ubiquità di Giovanni Bellini, che lascia così spazio a talenti emergenti nei settori pubblici.

Nella storia critica del dipinto che proponiamo leggiamo la grande confusione che spesso regna nel settore delle attribuzioni giorgionesche. La Visitazione è stata infatti, di volta in volta, attribuita ora a Sebastiano, ora a Giorgione e perfino a Tiziano. Le difficoltà derivano soprattutto dalla stretta affinità nello stile dei tre artisti ai primissimi anni del Cinquecento.

La persistenza del lessico di Giorgione la ravvisiamo non soltanto nella dolcezza delle figure, ma anche e soprattutto nel brano paesaggistico. Lo sfondo diroccato, ispirato forse alle stampe di Dürer, è dominante e riflette quella visione naturalistica di cui abbiamo parlato in riferimento alla Tempesta​.

"Capacità di introspezione psicologica"

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Fig. 7: "San Sinibaldo", Sebastiano del Piombo, Gallerie dell'Accademia, Venezia
Se la Visitazione, di cui si è appena parlato, ci ricorda Giorgione nel paesaggio; i volti dei santi nelle tavole provenienti dalla chiesa di San Bartolomeo esprimo tutta la capacità di introspezione psicologica che Sebastiano del Piombo eredita dal suo maestro.

I santi del ciclo esposto alle Gallerie dell'Accademia sono quattro: Bartolomeo, Sebastiano, Ludovico da Tolosa e Sinibaldo. Quest'ultimo assolutamente raro nella pittura "italiana", ma qui giustificato dal luogo di provenienza dell'opera: la chiesa di San Bartolomeo si trova, infatti, nei presso del Fondaco dei Tedeschi dove gravitava la nutrita comunità di mercanti germanici.

Mi soffermerei proprio sul volto di San Sinibaldo. Il santo di Norimberga, canonizzato nel Quattrocento, appare in una posa estremamente elegante (quasi da modello). Il suo vestiario, sobrio dal collo in giù, è caratterizzato da un elaborato cappello con simbologie araldiche e naturalistiche. Un copricapo goliardico verrebbe da dire, se non conoscessimo la leggenda secondo la quale il santo, dopo la morte, avrebbe tirato un ceffone ad un buffone colpevole di aver tirato la barba al cadavere (e quindi non doveva essere un grande amante degli scherzi). Il volto, come dicevo, è invece estremamente realistico e, alla maniera di Giorgione, il pittore si rivela capace di rivelarci in pochi attimi il carattere serioso e devoto del personaggio.


Sebastiano lavora all'opera appena prima della sua partenza per Roma, che avviene nel 1511. Nella città dei papi il Luciani si troverà a gareggiare con Raffaello per ottenere i favori del pontefice, forte però di un significativo protettore: Agostino Chigi, tesoriere capitolino.

Con Sebastiano del Piombo terminiamo il capitolo odierno dedicato alla figura di Giorgione e alle opere che attorno a lui gravitano nel contesto delle Gallerie dell'Accademia.
Il nostro viaggio nello straordinario museo veneziano però non finisce qui! Vi do appuntamento alle prossime settimane in cui parleremo di altri grandi interpreti del Rinascimento veneto: da Tiziano, passando per Veronese, Paris Bordon e il genio furioso di Tintoretto.

Articolo a cura di Daniel Buso
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GALLERIE DELL'ACCADEMIA. PARTE 2

15/3/2021

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"L'impero veneto è nel suo momento più glorioso "

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Nel 1454, con la pace di Lodi, si completa l'espansione in terraferma di Venezia. Come evidenziato nell'articolo precedente [GALLERIE DELL'ACCADEMIA. PARTE 1], la Serenissima ha lasciato le acque isolate della laguna già da 50 anni, allargandosi secondo la proverbiale "svolta a Occidente".

Venezia diventa così uno "stato da terra", acquisendo lo status di potenza continentale, oltre che marinara. In questo momento l'impero veneto è nel suo momento più glorioso, ma è anche l'inizio della sua fine, che sopraggiungerà più di tre secoli dopo, dopo vicende alterne.

La città non è solo una brutale potenza imperialista, ma è anche l'epicentro del commercio quattrocentesco. A Venezia arrivano le novità da tutto il mondo conosciuto, tra cui le più belle opere d'arte prodotte dai contemporanei. Dalla metà del secolo la Serenissima rinuncia alla sua nota austerità di costumi per trasformarsi nella città più splendida dell'Occidente.

Si sviluppa a questo punto una pittura totalmente veneta, capace di fondere le specificità delle varie regioni "europee" con il glorioso passato all'orientale. Protagonista è ancora la bottega familiare dei Bellini, che ha in Giovanni Bellini: il primo autentico pittore del Rinascimento in laguna.

"Tutto è funzionale per celebrare la ricchezza di Venezia "

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"Processione in piazza San Marco", Gentile Bellini, 1496, Gallerie dell'Accademia, Venezia.
La forza dei Bellini è già evidente con il fratello maggiore di Giovanni: Gentile Bellini. Vicino al linguaggio di Andrea Mantegna, fin dai suoi esordi, sviluppa un suo stile peculiare costruendo figure con linee di contorno precise.

Le sue opere sono caratterizzate da grande realismo, il che ne fa il maggior ritrattista dell'aristocrazia veneta. Tra i suoi capolavori, i grandi teleri celebrativi trovano una posizione fondamentale, aprendo per certi versi alla stagione del vedutismo lagunare.

La Processione in piazza San Marco [foto in alto] è un dipinto monumentale di 347x770 centimetri, destinato alla Scuola Grande di San Giovanni Evangelista. Gentile dipinge un momento di grande importanza istituzionale: la festa della Santa Croce del 25 aprile 1444, durante la quale avviene il miracolo della guarigione immediata del figlio di un mercante che aveva pregato la reliquia.

Più che una rappresentazione narrativa, l'opera è un fondamentale ritratto pubblico della città. La vastità della piazza, la raffinatezza della basilica di San Marco e Palazzo Ducale sullo sfondo. Tutto è funzionale a celebrare la ricchezza di Venezia. Gentile Bellini, inoltre, sposta ​il Campanile sulla destra per permettere agli osservatori una visione maggiormente completa dei monumenti.

"Un'incredibile capacità di rappresentazione dei sentimenti "

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"Madonna degli Alberetti", Giovanni Bellini, 1487, Gallerie dell'Accademia, Venezia
Nel sesto decennio del Quattrocento irrompe sulla scena Giovanni Bellini, il maggiore pittore veneziano del secolo. Il suo primo fondamentale capolavoro è il polittico di San Vincenzo Ferrer ancora ospitato nella basilica dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia.

La novità di Giovanni sta nella sua capacità di creare unità tra gli elementi: linea, volume, colore e luce, tutto è fuso assieme in senso rinascimentale; diversamente dal passato gotico in cui gli elementi erano trattati come entità distinte. A questo senso maturo dello spazio, il Bellini aggiunge la straordinaria rappresentazione delle figure basata sul modello stilistico di Antonello da Messina.

La carriera di Giovanni Bellini è straordinaria e incredibilmente lunga. Già dagli anni '80 il suo stile marca una rottura tra la sua produzione e quella degli altri pittori contemporanei. Egli viene nominato pittore ufficiale di stato con la dispensa dal pagamento delle tasse nel 1483.

Gli incarichi ufficiali sono innumerevoli: dal rifacimento del ciclo pittorico in Palazzo Ducale, alle enormi pale d'altare nelle chiese veneziane. Nel tempo libero Giovanni si dedica alla produzione di quadri di Madonne, diffusi in tutte le case. Qui, anche grazie alla maggior libertà, il Bellini manifesta un'incredibile capacità di rappresentazione dei sentimenti.

Come nel caso della Madonna degli alberetti [foto in alto], in cui il pittore non si limita a dipingere un soggetto sacro ma ci rappresenta con straordinaria efficacia l'eterno tema del rapporto d'affetto tra madre e figlio.

"L'unico in grado di rivaleggiare con Giovanni Bellini "

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"Madonna col Bambino in trono e santi", Alvise Vivarini, 1480, Gallerie dell'Accademia, Venezia
L'alter ego di Giovanni è, in questa fase, il più giovane Alvise Vivarini. Quest'ultimo possiede una minore sensibilità di luce e colore. I suoi paesaggi sono meno raffinati e nella rappresentazione della figura umana non raggiunge l'armonia belliniana. Ciononostante è l'unico in grado di rivaleggiare con Giovanni Bellini.

​L'opera appartiene al filone fortunato delle sacre conversazioni, una tipologia largamente diffusa nelle chiese del Quattrocento. La composizione viene dipinta da Alvise per la chiesa di San Francesco a Treviso. Il pittore inserisce due finestre sullo sfondo per aprire la rappresentazione sul paesaggio. Le finestre sono state però coperte con l'inserimento della tenda verde, misteriosamente aggiunta ben dopo la produzione dell'opera.

Nonostante una certa rigidità nelle pose, le figure sono estremamente realistiche e dimostrano come Alvise sia stato capace di assimilare con successo il linguaggio sofisticato di Antonello da Messina (presente a Venezia tra il 1475 e il 1476).

Ogni santo, come è noto, allude a qualcosa; e Alvise Vivarini si sofferma con grande attenzione sulla gestualità dei personaggi, in particolare sulle mani. Con ampio gesto San Francesco rivela le sue stigmati, Giocchino porge la colomba della pace, mentre la Vergine invita gli osservatori a partecipare alla scena.

"Un'altra personalità di grande livello "

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"Madonna col Bambino in trono e santi", Cima da Conegliano, 1497-1501, Gallerie dell'Accademia, Venezia
Un'altra personalità di grande livello, in questo primo Rinascimento veneto, è Cima da Conegliano. Alcuni aspetti, come la sua provenienza provinciale e la morte precoce, ne hanno condizionato l'ascesa e precluso importanti commissioni di stato.

Cima, tuttavia, trova un certo successo presso le confraternite lagunari e alcuni ordini religiosi, inserendosi poi con forza negli anni '90 del secolo quando Giovanni Bellini è impegnato nel ciclo decorativo di Palazzo Ducale. 

Il pittore coneglianese non è un semplice gregario ma è capace di innovare rispetto al già originale stile di Bellini e, in un caso, riesce ad essere lui stesso ispiratore di Giovanni. Sto parlando del bellissimo Battesimo di Cristo in San Giovanni in Bragora [articolo], a cui il Bellini guarda nel realizzare il suo Battesimo per la chiesa di Santa Corona a Vicenza.

​Tra i suoi capolavori oggi esposti alle Gallerie dell'Accademia, segnalo questa straordinaria pala d'altare, commissionata dall'armatore Giorgio Dragan per la chiesa della Carità a Venezia. Cima si dimostra qui capace di fondere ciò che di meglio l'arte locale ha da offrire: la monumentalità di Giovanni Bellini, i lavori in marmo di Tullio Lombardo e la dolcezza espressiva di Antonello da Messina.

Di incredibile realismo è il presunto ritratto del committente, il quale presta il suo volto per la rappresentazione di San Giorgio (con cui condivideva il nome), visibile nel secondo santo da sinistra.

"Il volto della Serenissima nel Rinascimento "

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"Miracolo della reliquia della Croce al ponte di Rialto", Vittore Carpaccio, 1496 circa, Gallerie dell'Accademia, Venezia
Chiudiamo questo secondo appuntamento dedicato ai capolavori delle Gallerie dell'Accademia, con il più grande autore di teleri a Venezia: Vittore Carpaccio. Creatore di incredibili "vedute" della città, ci ha consegnato un'immagine irripetibile del volto della Serenissima nel Rinascimento.

L'opera in oggetto appartiene al celebre ciclo per la Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, di cui abbiamo appena parlato con Gentile Bellini. Il tema è sempre quello dei miracoli di un frammento della Vera Croce, regalato alla Scuola nel 1396 da Philippe de Mézières, cancelliere dei regni di Cipro e Gerusalemme.

La scena mostra il miracolo della guarigione di un ossesso, avvenuta grazie all'imposizione della reliquia per mano del Patriarca di Grado. In realtà, all'episodio centrale è riservato un piccolo spazio nella parte in alto a sinistra del dipinto (sotto un'elegante loggia rinascimentale). Ciò che più conta, per Carpaccio, è il racconto della vitalità urbana brulicante di vita.

Due particolari destano l'interesse di noi osservatori del XXI secolo. Il ponte di Rialto, innanzitutto, nelle sue forme lignee, prima della ricostruzione in pietra del 1591. Un ponte levatoio medievale in piena regola, funzionale al passaggio di ingombranti imbarcazioni sul Canal Grande. L'altro particolare è la presenza di un gondoliere di pelle scura nel primo piano della scena.

Quest'ultimo dettaglio ci porta a riflettere sulla presenza traumatica di schiavi nella Venezia del Rinascimento. Si sa, infatti, che, nonostante il divieto cattolico di praticare la schiavitù, per secoli l'Europa ha convissuto con la presenza di stranieri ridotti a merce. Questa è una pagina terribile di un periodo che, sotto altri punti di vista, ha segnato una svolta nella cultura e nella civiltà umana.

Con Carpaccio si conclude il nostro secondo appuntamento con le Gallerie dell'Accademia. Vi do appuntamento alla prossima settimana dedicata tutta a Giorgione e al seguito che il suo impatto ebbe in laguna!

​Articolo a cura di Daniel Buso
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GALLERIE DELL'ACCADEMIA. PARTE 1

9/3/2021

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"Potenza e ricchezza "

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Potenza e ricchezza. In queste due parole si riassume la grandezza di Venezia nell'età medievale. La ricchezza, come si sa, è il presupposto imprescindibile per lo sviluppo della cultura e la città diventa presto centro propulsore di tesori artistici.

L'antefatto del racconto di questo articolo è la crisi militare di fine Trecento. Tra il 1378 e il 1381 si consuma la Guerra di Chioggia, nel corso della quale la sopravvivenza stessa di Venezia viene messa a rischio. I genovesi arrivano fin dentro alle acque della laguna, ma la città resiste e il nuovo doge Antonio Venier, eletto nel 1382, trasforma nuovamente la Serenissima in un'isola felice.

In questo periodo il cambiamento culturale più significativo è l'apertura a Occidente. Venezia non ha più un rapporto esclusivo con l'Oriente e anche in ambito artistico gli artisti manifestano una sempre maggiore voglia di modernità, per uscire dai canoni rigidi della pittura bizantina.

Inizia così il Rinascimento veneziano che, pur tardando ad affermarsi rispetto a Firenze o Roma, rivoluzionerà il volto della città e permetterà (alla data 1494) all'ambasciatore francese Philippe de Commynes di affermare: "è la città più bella e trionfante".

"Contorni nitidi
​e ombre delicatissime
"

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"Madonna col Bambino e il committente Vulciano Belgarzone", Nicolò di Pietro, 1394. Gallerie dell'Accademia, Venezia
Alla fine del Trecento la situazione artistica è bloccata. Le opere subiscono una flessione espressiva, lo stile è costretto dalle regole accademiche e gli artisti si chiudono negli argini rassicuranti del passato glorioso.

Uno degli episodi che segnano la svolta è la presenza in città di Nicolò di Pietro, documentato per la prima volta nel 1394, anno in cui firma la Madonna col Bambino e il committente Vulciano Belgarzone esposta nella prima sala delle Gallerie dell'Accademia [vedi immagine qui sopra].

Lo stile di Nicolò è tra i più fulgidi esempi di gotico internazionale, riflesso di una società che si allontana dalle formule orientali per rivolgere il proprio sguardo a Occidente. Le sue figure sono caratterizzate da contorni nitidi e ombre delicatissime, pur all'interno di uno sfondo dorato che ancora ricorda le sofisticate icone greche.

Sono numerose le caratteristiche che rendono estremamente innovativo questo dipinto. Il senso di naturalismo, la capacità di comunicare i sentimenti nei volti dei personaggi e una pittura liquida capace di infondere grande luminosità alla composizione.

"Dalla schematica tipologia bizantina
al più frizzante stile gotico
"

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"La Giustizia in trono con gli arcangeli Gabriele e Michele", Jacobello del Fiore, fine XIV sec. Gallerie dell'Accademia, Venezia
A Nicolò di Pietro segue Jacobello del Fiore. Attivo a Venezia dal 1400, lo scopriamo pittore ufficiale della Serenissima nel secondo e quarto decennio del secolo. L'ufficialità non è in questi secoli un riconoscimento puramente formale, come sottolinea la tanto agognata sospensione dalle tasse e l'alto stipendio che accompagnavano l'attribuzione della carica.

L'opera che ci accoglie al piano nobile delle Gallerie dell'Accademia è tutta sua. Un'imponente tavola con La Giustizia in trono tra gli arcangeli Gabriele e Michele (Trittico della Giustizia) entrata nel museo veneziano nel 1884 [vedi immagine in alto].

Tempera e oro sono i materiali che compongono questa scena caratterizzata dalla vivacità dei colori (molto preziosi) e dal dinamismo delle figure che rendono la superficie pittorica estremamente piacevole. Jacobello abbonda inoltre di dettagli e particolari intriganti.

Anche lui, come Nicolò, assume su di sé il peso del trapasso linguistico dalla schematica tipologia bizantina al più frizzante stile gotico. La sua importanza a Venezia è sottolineata dall'ipotesi che lo vuole al fianco dei più blasonati Pisanello e Gentile da Fabriano nella decorazione di Palazzo Ducale, quindi nel cuore delle commissioni in laguna.

"Il gotico è al suo canto del cigno "

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"Polittico di San Giacomo", Michele Giambono, 1450. Gallerie dell'Accademia, Venezia
Nel 1415 Jacobello del Fiore ottiene la carica di "gastaldo" della corporazione dei pittori veneziani. Posizione di prestigio che lo rende forse il pittore più influente in laguna questa data. Lo stesso anno è significativo anche per l'arrivo a Venezia di Michele Giambono.

Il suo stile è un riassunto delle migliori espressioni lagunari: le linee complesse dell'opera matura di Jacobello, gli accenti "espressionisti di Zanino di Pietro e l'attenzione al dato naturalistico di Nicolò di Pietro.

Per scoprirne l'opera degli esordi bisognerà spostarsi momentaneamente dalle Gallerie per ammirare la Madonna del Carmelo collocata nella chiesa degli Scalzi a pochi passi dalla stazione ferroviaria. Il suo capolavoro museale è invece il Polittico San Giacomo datato al 1450 [immagine in alto]. Cinque preziose tavole a fondo d'oro.

L'aspetto più evidente di questo capolavoro è il prezioso senso della decorazione, ispirato alla maniera degli artisti che in quegli anni decoravano Palazzo Ducale.  Il Gotico è al suo canto del cigno e il Giambono ce ne lascerà una testimonianza raffinatissima con il San Crisogno a cavallo che si può ammirare nella chiesa di San Trovaso sempre a Venezia, vicino ai capolavori di Jacopo Tintoretto.

"Un linguaggio ormai maturo
​si sta diffondendo a Venezia
"

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"Madonna col Bambino", Jacopo Bellini, 1450 c. Gallerie dell'Accademia, Venezia
A questo punto irrompe sulla scena Jacopo Bellini.
Il primo e precoce pittore autenticamente rinascimentale a Venezia.

Jacopo organizza la produzione in una bottega dal carattere marcatamente familiare. Le opere che escono dallo studio sono culturalmente nuove e per certi versi antitetiche rispetto alla corrente tardo gotica. La sua consapevolezza rinascimentale si esprime nel disegno molto più sicuro, nelle architetture razionali e nel colore. Un linguaggio ormai maturo si sta diffondendo a Venezia.

La tavola qui riportata fa parte del genere devozionale della Madonna col Bambino [vedi immagine in alto], di cui il figlio Giovanni diventerà grande interprete. Il punto di partenza è, ancora una volta, l'icona bizantina. Ciò che cambia è la rappresentazione del soggetto, l'inedita attenzione all'aspetto umano ed emotivo che portano l'artista a rappresentare qualcosa di più rispetto a due figure sovrannaturali: ovvero il rapporto tra una madre e il figlio.

Le forme sono costruite con maggiore solidità rispetto al passato e i panneggi meticolosamente dipinti sui corpi riescono nell'intento di far risaltare la volumetria. Il rosso dominante è impreziosito da tocchi dorati nei punti in cui si posa la luce. L'umanità espressiva è straordinariamente suggerita dal gesto del Bambino che accarezza il volto della Madre.

"L'estrema espressione del
​tardo gotico-internazionale a Venezia
"

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"Polittico della Carità", Antonio Vivarini, 1446. Gallerie dell'Accademia, Venezia
Nel medesimo periodo di Jacopo Bellini compare a Venezia un'altra corrente influenzata dalle novità espressive centro-italiane. Si tratta della "scuola muranese". Murano è infatti il luogo di nascita del capostipite della bottega: Antonio Vivarini, nato tra il 1415 e il 1420.

Alla bottega partecipano fin da subito il cognato di Antonio, Giovanni d'Alemagna, e il fratello minore Bartolomeo. Ai due si aggiungerà il figlio Alvise che opererà in città fino al Cinquecento.
Antonio Vivarini rappresenta, a metà Quattrocento, l'apice per la pittura veneziana. Egli non appartiene a quel linguaggio di inizio Rinascimento già espresso dal Bellini, ma è l'estrema espressione del tardo gotico-internazionale a Venezia.

Antonio Vivarini realizza, nel 1446, il Polittico per l'influente Scuola Grande​ della Carità, oggi alle Gallerie dell'Accademia [immagine in alto]. Si tratta dell'esito più complesso e monumentale del sodalizio con Giovanni d'Alemagna. La struttura architettonica rievoca forme gotiche ma il senso dello spazio è coerente e sviluppato da chi, chiaramente, conosceva le regole della prospettiva.

Le intuizioni prospettiche del Vivarini, la dolcezza con cui sono resi gli incarnati e i colori squillanti (forse debito del celebre vetro muranese) dimostrano la modernità di Antonio e la sua comprensione delle opere padovane di Donatello che ebbe l'opportunità di vedere dal vivo. L'opera, come dicevo, è gotica ma il senso dello spazio sembra aprire con forza la strada agli sviluppi rinascimentali di Andrea Mantegna e Giovanni Bellini di cui parlerò nel prossimo capitolo dedicato sempre alle Gallerie dell'Accademia.

Vi dò quindi appuntamento al prossimo articolo del Blog di ARTIKA in cui affronterò ancora l'argomento della grande arte del Rinascimento a Venezia!
Articolo a cura di Daniel Buso
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MODIGLIANI. Maudit

22/2/2021

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"Il cigno di Livorno "

Modigliani. Italiano. Ebreo. Con queste tre semplici parole Amedeo Modigliani accompagna il suo ingresso al Café La Rotonde di Parigi. L'immagine è quella di un giovane scapigliato, vestito di abiti logori ma affascinante e di bell'aspetto, anzi bello. Così lo descrivono i testimoni oculari: "il cigno di Livorno".

Modigliani è un giovane pittore inesperto che dalla provincia italiana si trova catapultato nella metropoli, cuore pulsante delle arti e della letteratura europea. Scende alla Gare de Lyon, la stazione che accolse migliaia di immigrati italiani a partire dalla fine del 1800.
​
Il suo aspetto è quello di un dandy dai modi aristocratici, anche se i suoi vestiti non sono all'ultima moda locale. Al suo arrivo a Parigi, Amedeo gode di una discreta rendita familiare che gli consente di dedicarsi alla sua carriera senza eccessive preoccupazioni. Ma questa serenità lo abbandona rapidamente e così i suoi modi aristocratici sembrano a poco a poco svanire per lasciare spazio alla figura con cui verrà ricordato: un bohémien dallo stile di vita disordinato e trasandato.
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"Uno stile di vita sempre più rovinoso "

La sua parabola personale si compie così, nel volgere di pochi anni, tra Montparnasse e Montmartre, i quartieri che resteranno per sempre impressi nell'immaginario collettivo come l'epicentro della vita artistica parigina.
L'alcol entra ineluttabilmente a far parte dell'esistenza di Modigliani e in particolare l'assenzio. La fata verde che esalta i sensi ma corrompe progressivamente l'anima.

Amedeo si ritrova a occuparsi principalmente di ritratti. E le sue figure appartengono perlopiù a modelle (professioniste o improvvisate) che si spogliano nei suoi innumerevoli studi pittorici. Le donne posano in atteggiamenti disinibiti davanti all'artista che è capace di farne affiorare lo spirito interiore sulla superficie delle tele e dipingerle come se fossero viste attraverso il vetro deformante di una bottiglia di assenzio.

La vita scapestrata del pittore italiano si svolge nella capitale francese accanto ai più grandi nomi della pittura mondiale del Novecento. Picasso, Matisse, Chagall, per varie ragioni confluiscono a Parigi dove impongono rapidamente la propria firma su ciò che di meglio ha da offrire l'arte contemporanea.

Modigliani li conosce, soprattutto Picasso, ma la sua amicizia si lega in particolare agli artisti che più ne condividono l'eccentricità e lo stile di vita dissoluto. Il primo è Soutine, un ebreo in fuga dai pogrom nell'Europa dell'Est, maleodorante e sgarbato. Molti gli aneddoti che accompagnano la sua vita: dal fatto che non si fosse mai cambiato la giacca all'età di trent'anni, fino alla scoperta assai tardiva dello spazzolino. L'altro grande amico di Amedeo è invece Maurice Utrillo, un francese dal cognome spagnolo e figlio di Suzanne Valadon, pittrice di discreto successo. Maurice sembra sia alcolizzato fin dall'infanzia quando la nonna, per calmarlo, gli somminista vino assieme al più convenzionale latte. Utrillo vive tutta la vita sul confine sottile tra il genio lucido e la follia ospedaliera, trascorrendo molti mesi in traumatiche strutture ricettive per malati di mente.

Dei due artisti sopracitati il nostro pittore non condivide l'infanzia dolorosa. Amedeo infatti cresce all'interno di una famiglia della borghesia livornese e, nella sua permanenza in Italia, non subisce nessuna discriminazione per il fatto di essere ebreo. Ma in Francia è un'altra cosa. Le finanze di Modigliani non sono più così stabili, gli ebrei in certi ambienti non sono ben visti e in diversi episodi il pittore si rende conto di come quella religione, di cui non è mai stato fervente devoto, possa provocargli ostilità e antipatie. Ciò che compromette irreversibilmente la salute di Amedeo è però l'indifferenza della comunità parigina nei confronti della sua arte. Una ostilità che è in qualche caso diffidenza ma nella maggior parte dei casi indifferenza. Questo crea una frattura nello spirito dell'artista portandolo ad assumere uno stile di vita sempre più rovinoso.
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"Maledetto! E maledetta è la sua esistenza "

Gli amici di bevute, Soutine e Utrillo, raggiungono un ampio successo in vita. Modigliani, come è noto, brancola nel buio dell'indifferenza generale. Il pittore riceve l'onore di un'unica mostra mentre è ancora sulla terra. Siamo nel 1917 e la gallerista è la celebre Berthe Weil. La mostra dura solo qualche ora: il motivo ufficiale delle chiusura è l'oltraggio alla morale pubblica. I quadri vengono rapidamente coperti dalle forze dell'ordine con teli neri. Berthe tenta una strenua linea di difesa affermando che anche al Louvre molti corpi sono nudi. Il commissario di polizia le risponde che i nudi del museo francese non hanno i peli pubici bene in vista.

I corpi ritratti da Modigliani hanno forme morbide e angolose, colli da cigno e grandi occhi da statua greca e, in molti casi, i peli pubici dipinti con tono disinibito e audace rispetto alla rigida morale del tempo. Le sue figure sono accattivanti e portatrici di un'intensa sensualità. Non sono rappresentazioni rigidamente realistiche, ma è proprio il tocco personale e onirico che attribuisce maggiore magnetismo ai suoi corpi.

Modigliani viene chiamato "Modì" dagli amici francesi. Un nomignolo che in francese può essere scritto anche così: maudit. Traduzione letterale: maledetto! E maledetta è la sua esistenza, composta da luci e ombre. Una vita segnata da una malattia presa in tenera età, la meningite tubercolare, che si aggraverà nel corso degli anni anche a seguito delle scelte dissolute del nostro protagonista.
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"La felicità è un angelo dal volto serio "

"La felicità è un angelo dal volto serio". Citando le parole dello stesso Modigliani, andiamo alla scoperta del suo amore estremo. La protagonista è Jeanne Hébuterne, devota amante fino all'estremo sacrifizio (come rievoca il testo inciso sulla sua lapide). Pittrice talentuosa, giovanissima, dagli occhi sperduti e intensi.

L'incontro tra Jeanne e Amedeo dà il via ad un periodo di illusoria pace e tranquillità. L'amore è eccezionalmente intenso e da esso nascerà Giovanna, seconda figlia di Modigliani, ma prima ad essere riconosciuta dal padre. Parallelamente si aggrava però la salute del pittore e le sue svariate dipendenze modulano sempre più in negativo il suo già instabile carattere. 

Il gennaio del 1920 è il più nero. Modigliani ha 37 anni, 10 in più del mitico club di Rock Star. Muore il giorno 24 di quel mese. Maledetto di nome e di fatto lascia la terra senza il successo di cui avrebbe meritato di godere almeno un po' mentre era in vita. E invece eccolo lì il successo, inaspettato e subdolo, arriva mentre un folto pubblico di artisti e intellettuali accompagna il feretro. In coda qualcuno mormora, si vendono quadri e disegni a centinaia di franchi. Cifre destinate ad essere terribilmente moltiplicate nel giro di pochi decenni.
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All'alba del giorno dopo i funerali, l'amata Hébuterne si lascia cadere dal piano più alto della casa dei genitori e muore portando con sé il secondo figlio ancora in grembo. La morte improvvisa, il tragico suicidio di Jeanne, ancor più doloroso forse della morte di Amedeo, sono sulla bocca di tutti a Parigi.

Il mito si è costruito in poche ore. Tutti vogliono Modigliani. Il debole pittore livornese, che pochi giorni prima molti disprezzavano e la maggior parte ignoravano, è ora tra gli artisti contemporanei più ambiti.
E così riposa nel cimitero Père Lachaise di Parigi, vicino a Molière, Oscar Wilde e all'icona rock con cui condivide la vita dissoluta: Jim Morrison.
Articolo a cura di Daniel Buso
Per un più ampio approfondimento sulla figura di Modigliani consigliamo la lettura di "Modigliani. L'ultimo romantico" di Corrado Augias.

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