"Il confine tra pubblico e privato si annulla"Nel 1978, all’età di 28 anni, Steve McCurry lascia la posizione di fotografo presso un giornale provinciale di Filadelfia per dar vita ad uno dei suoi più grandi sogni: visitare l’India. Il fotografo acquista duecento rullini e lascia gli Stati Uniti. L’inizio non è dei più esaltanti e, come ci racconta lui stesso, a sole due settimane dall’arrivo, “in un posto chiamato Kodaikanal, nel Sud, mi presi l’amebiasi e inoltre dovetti sottopormi a una serie di iniezioni antirabiche, dopo essere entrato in contatto con un cane idrofobo”. Di questo primo viaggio poco rimane poiché le imprese maggiori di fine anni ’70 si concentrano nella documentazione di Afghanistan e Pakistan. Nel 1983 torna però nel subcontinente con lo scopo di documentare il monumentale sistema ferroviario dell’Asia meridionale. Ne deriva un resoconto preciso ed emozionante della vita quotidiana in India, dove la maggior parte delle attività avviene in pubblico: come mangiare, dormire e lavarsi. La serie di immagini è un grande ritratto di questa complessa società in cui il confine tra pubblico e privato si annulla, un paese in cui “i poveri, ma anche quelli che se la cavano un po’ meglio, tendono a vivere in strada”, sottolinea McCurry. Il suo racconto per immagini dell’India non è però puramente romantico, poiché non trascura di parlarci dei profondi contrasti e delle iniquità che ancor oggi costellano quel mondo lontano. Nel tempo l’India è diventata una delle nazioni più frequentate da McCurry, protagonista di preziose serie documentarie pubblicate da prestigiose riviste internazionali. "Lo sguardo esprime appieno lo spirito della sua gente"L’immagine qui pubblicata, scattata nel 2009, rappresenta una bellissima bambina nomade incontrata dal fotografo in Rajasthan, nell’India del Nord, dove egli svolgeva un prezioso lavoro di documentazione delle popolazioni nomadi.
L’etnia di appartenenza è Rabhari, nomadi principalmente dediti alla pastorizia. Essi viaggiano incessantemente alla ricerca di cibo per i loro animali. McCurry ci racconta di come i Rabhari saranno presto costretti a trasferirsi presso i centri urbani, finendo così per perdere la propria affascinante alterità. Il Rajasthan si sta trasformando in un territorio inospitale per i nomadi sia a causa del cambiamento climatico che a seguito della massiccia opera di edificazione e industrializzazione. La piccola protagonista si chiama Shakti e sembra accoglierci nella sua piccola casa-tenda. Lo sguardo esprime appieno lo spirito della sua gente, orgogliosa e indipendente. Le qualità pittoriche di questa immagine sono impressionanti, sia dal punto di vista della luce che della composizione, ma lo è altrettanto il senso di empatia e di comprensione che il fotografo riesce a suscitare nello spettatore di questa scena così toccante. Riprendendo le parole di Anthony Bannon, direttore della George Eastman House di New York, si può dire che “l’immagine in oggetto è perfettamente in linea con i suoi obiettivi artistici: rappresentare, attraverso le vite degli altri, questioni di portata universale, che ci parlino della condizione umana”. Articolo a cura di Daniel Buso Per info sulla mostra in corso a Palazzo Sarcinelli, clicca il link qui in basso
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McCurry entra in Afghanistan senza documenti, accompagnato esclusivamente dalla macchina fotografica e da un coltellino svizzeroNel 1979 le truppe sovietiche invadono l’Afghanistan per soccorrere il governo nel tentativo di spezzare la resistenza dei mujahidin, a loro volta sostenuti dagli Stati Uniti. Nel maggio dello stesso anno Steve McCurry entra nel paese con un gruppo di ribelli, travestito da afghano. L’allora giovanissimo fotografo si presenta privo di documenti e accompagnato esclusivamente dalla macchina fotografica e da un coltellino svizzero. Il viaggio comincia dall’India centrale, dove McCurry si trovava da quasi due anni, per continuare in Pakistan, a ovest dell’Himalaya. Nella piccola cittadina di Chitral, il fotografo entra in contatto con alcuni rifugiati, i quali gli fanno indossare un logoro shalwar kameez e lo conducono al confine. “Mi sentivo allo stesso tempo spaventato ed eccitato nel partire dal Pakistan in quegli abiti per entrare clandestinamente in un altro paese, senza alcuna possibilità di comunicare con il resto del mondo”. Steve McCurry si trova così nel mezzo della guerra fredda, testimone esclusivo e segreto di un conflitto manovrato da Stati Uniti e Unione Sovietica. Il fotografo aveva all’epoca ventinove anni e, nonostante le inevitabili tensioni ed il rischio costante di perdere la propria vita, vive una delle esperienze più esaltanti della propria carriera. Situazione che gli permette, in primo luogo, di incontrare amici e di sperimentare quel senso di umanità e di solidarietà internazionale che è capace di perdurare anche nelle situazioni geo-politiche più complesse del pianeta. Nel giugno di quell’anno il fotografo trascorre tre settimane con i compagni afghani, comunicando con un linguaggio fatto di segni e gesti. Dell’Afghanistan McCurry porta con sé il senso di semplicità, l’essenzialità connaturata alla vita di stenti che accompagna i protagonisti di una guerra. Nel suo primo viaggio il fotografo americano realizza esclusivamente immagini in bianco e nero, impiegando una pellicola Kodak Tri-X ad alta velocità. Nella messa in posa dei soggetti e nell’intensità che trapela da molti sguardi si intuisce già lo stile futuro del McCurry “a colori”, capace, come pochi altri, di stabilire un profondo e unico legame tra il fotografo e il suo soggetto. "Tutto avrei immaginato, ma certo non il suo immediato desiderio, appena uscito alla luce del sole, di accendersi una sigaretta"McCurry torna in Afghanistan innumerevoli volte, spesso al servizio di riviste internazionali. Ogni viaggio rischia di compromettere la sua vita ma egli dimostra sempre di accettarlo senza compromessi.
Una delle sue ultime esperienze risale al 2002, anno in cui viene scattata l’immagine qui riportata. Siamo di fronte ad uno dei suoi ritratti indimenticabili. L’opera fa parte di un lavoro di documentazione sulle miniere in Afghanistan. Il paese possiede infatti un terreno ricchissimo di minerali non ancora del tutto sfruttato; un luogo malsano in cui la gente vive in condizioni di povertà estrema. Siamo alle porte di una miniera di carbone e il protagonista dell’immagine era appena riemerso dal suo turno di 12 ore. McCurry lo confessa: “Tutto avrei immaginato, ma certo non il suo immediato desiderio, appena uscito alla luce del sole, di accendersi una sigaretta”. E invece eccolo qui con la sua sigaretta e lo sbuffo di fumo. Il suo sguardo è pieno di forza e dignità; la luce dei suoi occhi ipnotizza lo spettatore. La storia ci racconta di un uomo estremamente stanco, ma assolutamente non piegato dalle fatiche che la vita gli ha riservato. Questa è la tempra degli afgani. Un popolo fiero, che non rinuncia alla sua dignità neppure nelle situazioni più avverse. Articolo a cura di Daniel Buso Per informazioni sulla mostra "Steve McCurry. Icons", premi il pulsante qui in basso La Legenda Aurea di Jacopo da Varagine (1228-1298) racconta storie di guerre e conflitti originati da motivazioni religiose e culturali. Come durante l'epoca dell'Imperatrice Elena (III secolo), il nostro presente non riesce a svincolarsi da queste problematiche. La ricerca di predominio e l'imposizione di determinate ideologie attraversano, destabilizzandolo, il nostro tempo.La storia sistematicamente deviata verso il conflitto è il contenuto di una grande opera d'arte contemporanea intitolata Le Storie della Vera Croce. L'autore è Luigi Presicce, il cui progetto, composto da un ciclo di dieci videoinstallazioni, è stato recentemente protagonista di un'importante mostra negli spazi del Mattatoio di Roma. Il ciclo di Presicce trae la sua ispirazione dalla fluida narrazione di Jacopo da Varagine che nel XIII secolo raccolse un'infinità di aneddoti sulla storia del cristianesimo. A questa incredibile fonte iconografica, e in particolare alle Storie della Vera Croce, si è ispirato anche Piero della Francesca (1416-1492) nella realizzazione di uno dei cicli pittorici più importanti dell'origine del Rinascimento in Italia: quello di San Francesco ad Arezzo. Le storie di Luigi Presicce al Macro e di Piero della Francesca ad Assisi sono l'argomento di questo articolo: un viaggio in due epoche così distanti della storia dell'uomo, benché tristemente accomunate da violenza e instabilità. Il grande pittore toscano, primo utilizzatore consapevole della prospettiva in arte, è estremamente fedele al testo e si limita a presentare gli episodi sacri con spirito didascalico. Luigi Presicce parte dalle storie del Sacro Legno per dar vita ad un racconto più complesso in cui il tema delle guerre di religione attraversa diverse epoche storiche. "Una specie di tentativo di riconciliazione religiosa per essersi arricchito in modi non del tutto tollerati dalla Chiesa"La Basilica di San Francesco ad Arezzo è una sobria costruzione trecentesca, costruita in pietre e mattoni. La sobrietà (francescana) dell'esterno è presto superata dalla fastosità del ciclo di affreschi (in larga parte lacunosa) che ci accoglie appena varcata la soglia di ingresso. Il nostro sguardo è subito catturato dalla Cappella maggiore nel presbiterio. Qui, tra il 1453 e il 1464, Piero della Francesca vi dipinse il celebre ciclo di affreschi delle Storie della Vera Croce. Iniziato dal pittore Bicci di Lorenzo, divenne un capolavoro della pittura rinascimentale grazie all'intervento del suo erede. La genesi del ciclo è datata 1417. In quell'anno morì Baccio di Maso Bacci (ricco mercante aretino) che lasciò un generoso capitale per la decorazione del coro. Una specie di tentativo di riconciliazione religiosa per essersi arricchito in modi non del tutto tollerati dalla Chiesa; come il prestito, ritenuto peccati di usura. Trent’anni dopo l'erede Francesco Bacci commissionò all’anziano artista fiorentino Bicci di Lorenzo (di stile tradizionale) la realizzazione dell'opera. La morte colse il pittore nel 1452, lasciando libero spazio all'iniziativa di Piero della Francesca. Assai trascurate in passato, le opere vennero “riscoperte” solo alla metà dell’Ottocento quando si risvegliò l’interesse per questo grande maestro da parte di viaggiatori inglesi. Costoro, dopo aver ammirato il suo Battesimo di Cristo alla National Gallery di Londra, si riversarono ad Arezzo e a Sansepolcro per apprezzare la sua “laicità”: ovvero la nuova scienza prospettica e l’ispirazione, che secondo loro, derivava dall’arte greca. Lo stesso Degas, visitando Arezzo, trasse ispirazione per le sue opere classicheggianti. "In hoc signo vinces"Le Storie della Vera Croce di Piero della Francesca coprono un vasto arco cronologico: dalla Genesi fino al 628 d.C., quando il legno della Croce, dopo il furto, venne riportato a Gerusalemme. La scelta del soggetto è motivata dalla grande adorazione che i francescani provavano per la Croce. La visione del Cristo sulla Croce da parte di Francesco d’Assisi era stata il culmine della sua vita religiosa, premiandolo con il contrassegno delle celebri stimmate. L'episodio di partenza del racconto pierfrancescano è la Morte di Adamo [Fig. 2]. Il primo uomo sta per morire ed è accasciato sulla destra dell'affresco con l’anziana Eva alle sue spalle. Il figlio Set (sullo sfondo) sta per ricevere dall’arcangelo Michele il germoglio dell’Albero della Conoscenza. Dall’albero, che visse fino ai tempi di Salomone (900 a.C.), nascerà il legno per la Croce di Cristo, fonte di grande dolore per generazioni di esseri umani. Nel Ritrovamento delle tre croci e verifica della Croce [Fig.1] si vede l'Imperatrice Elena che ha appena ritrovato la croce di Gesù e quelle dei due ladroni. Non riuscendo a capire quale possa essere quella di Cristo, le fa esporre sopra il cadavere di un giovane appena morto. Costui miracolosamente risorge allorché viene a contatto con la sacra reliquia. A quel punto Elena e il suo seguito si inginocchiano adoranti. Segue un episodio meno nobile e che rischia, secondo la sensibilità odierna (e non solo), di mettere in cattiva luce l'imperatrice: mi riferisco alla Tortura dell’ebreo. La Croce, dopo la morte di Cristo, è stata sepolta e solo un ebreo di nome Giuda è a conoscenza del luogo. Per obbligarlo a parlare Elena lo fa calare in un pozzo, lasciandolo lì dentro fino a quando vorrà parlare. Due concitate scene di battaglia (Battaglia di Eraclio e Cosroé e Vittoria di Costantino su Massenzio) ci conducono all'affresco più famoso dell'intero ciclo, tra i più celebri di tutta la storia dell'arte. Il Sogno di Costantino [Fig.3]. Nella scena vediamo un angelo portare in sogno a Costantino, addormentato nella sua tenda di notte, la rivelazione della Croce e della vittoria su Massenzio a patto della sua conversione. L’Angelo gli porta una minuscola croce, simbolo dell’In hoc signo vinces. Costantino apporrà il segno della croce sulla divisa dei suoi soldati e vincerà le future sfide militari . L'episodio, retrospettivamente, può essere letto come l'inizio del militarismo cristiano. Il momento fondamentale in cui i rappresentati di questa religione votata alla pace "tradiscono" definitivamente la parola del loro profeta. Il Sogno di Costantino, al di là di ciò che rappresenta, è la prima veduta notturna pienamente convincente dell’arte europea prima di Caravaggio. Solo in seguito si scoprì che Piero voleva dipingere un’alba. "Un racconto serrato e visivamente travolgente"Muovendosi tra diversi media espressivi (performance, tableaux vivants, pittura, video), Luigi Presicce costruisce la sua complessa narrazione accostando mitologia, storia, superstizione e religione. L'ispirazione, come in Piero della Francesca, proviene dalle Storie della Vera Croce di Jacopo da Varagine.
Il linguaggio dell'arista contemporaneo (1976) è costruito tramite una continua trama di citazioni e rimandi a diversi repertori iconografici. La cultura popolare, la storia antica e contemporanea, la storia della religione e l'esoterismo fungono da bacino a cui attingere in modo del tutto libero. Al centro di tutto vi è l'uomo, raccontato nella sua esistenza storica e materiale spesso incline alla violenza e al non sense, ma al tempo stesso rappresentato nella sua nobile tensione vero la spiritualità. La mostra di Roma raccoglie dodici performance realizzate a partire dal 2012, liberamente ispirate agli affreschi di Piero della Francesca. L'episodio della Morte di Adamo presenta [Fig.4] una rispondenza iconografica attenta all'opera omonima di Piero [Fig.2]. Nella bocca del primo uomo è piantato l'Albero della Conoscenza, destinato a produrre il materiale per la Vera Croce. Sullo sfondo un moderno Adamo riceve dall'arcangelo l'Albero, mentre sulla sinistra una coppia di performers regge il modellino del Tempio di Salomone; destinato in altri tempi a divenire sede dei terribili Templari. Il racconto di Luigi Presicce prosegue con le vicende relative all'Imperatrice Elena e l'In hoc signo vinces che condusse alla vittoria in battaglia l'esercito di Costantino. La scelta di fregiarsi di un simbolo divino per basse ragioni politiche si ritrova tale e quale nella decisione di Hitler di assumere il simbolo della Svastica, uno dei segni più antichi e magici della storia dell'esoterismo indoeuropeo. I video di Presicce sono magnetici e ricolmi di simbologie. Un racconto serrato e visivamente travolgente sostenuto da un'estetica formale calibrata e estremamente appagante. Non è ovviamente possibile affermare quale dei due cicli sia meglio riuscito, dal momento che entrambi sono perfettamente rappresentativi dell'epoca in cui sono stati prodotti. Elegiaco e didascalico, seppur esteticamente rivoluzionario, quello di Piero della Francesca. Critico e demistificatore quello di Luigi Presicce, in un'epoca in cui gli artisti possono giocare un ruolo politico e sociale di guida, illuminando il buio che ci circonda. Articolo a cura di Daniel Buso "Può la passione per l'Arte sconfiggere la calura estiva?"In un periodo tormentato in cui mostre e musei sono sempre a rischio di chiusura anticipata, noi di ARTIKA approfittiamo di ogni momento disponibile per immergerci nell'Arte. Incuranti delle temperature sahariane abbiamo trascorso due giorni nella capitale con un unico scopo: visitare mostre e musei! Passata la sbornia per le prodezze calcistiche, Roma si presenta smagliante colpita da una luce tersa che la rende divina, in linea con la sua eternità. Passeggiare per le vie, solitarie rispetto agli standard pre-Covid, è impresa ardua in questa stagione. Di conseguenza confluiamo nelle strutture espositive alla ricerca di stimoli culturali e di aria condizionata. Le tappe di questi due giorni sono serrate e il mio resoconto, oltre a cercare di convincere chi legge a ripercorrere il percorso, si muove senza un preciso ordine cronologico, mescolando stili e periodi della storia dell'arte dal Rinascimento ad oggi. Qui in breve le esposizioni visitate: la Galleria Doria Pamphilj a pochi passi dal Vittoriano, la mostra del contemporaneo Nico Vascellari alla Fondazione Nicola del Roscio , e il World Press Photo al Macro. "Dove conduce la sete incontrollata di ricchezza"La Galleria Doria Pamphilj, pur centralissima in Roma, è uno scrigno traboccante di preziose opere d'arte leggermente distante dai flussi turistici di massa. Un Palazzo strepitoso, un concentrato di arte e di storia che riflette la grandezza di alcune tra le più grandi famiglie nobiliari italiane. La Galleria deve il suo aspetto attuale agli interventi voluti dal principe Camillo Pamphilj tra il 1731 e il 1734. Le sale raffinate sono un tripudio di tappezzeria, stucchi, marmi, soffitti affrescati e, ciò che più ci interessa, dipinti realizzati tra il Quattrocento il Settecento. L'emozione per gli spettatori è diversa rispetto a quella di un normale museo. Si ha la possibilità di rivivere l'atmosfera autenticamente vissuta dai nobili ospiti che ebbero l'opportunità di sostarvi nella seconda metà del Settecento. La famiglia Pamphilj è ancora proprietaria dell'immobile e delle meraviglie ospitate al suo interno, ma ha deciso di rinunciare alla superba contemplazione privata per consentire a tutti di beneficiare delle bellezza ospitata. In tal senso dimostrando più fedeltà agli ideali dei rivoluzionari napoleonici rispetto che alla bramosia personalistica di generazioni di aristocratici. I dipinti riempiono letteralmente ogni spazio disponibile a parete e, dopo un inizio incerto con opere minori di Federico Barocci e Mattia Preti, entriamo subito nel vivo con una bellissima Creazione degli animali attribuita a Jan Brueghel. All'alba del Seicento il maestro fiammingo non rinuncia alla particolare verve creativa dei suoi connazionali accostando ad animali reali bestie immaginarie i cui profili sembrano emergere dai recessi di una mente contorta. A Brueghel seguono in rapida successione, e forse in alcuni casi con attribuzioni forzate, mitologie di Paris Bordon, alcuni notturni di Francesco Bassano, una Deposizione di Paolo Veronese, un raffinato doppio ritratto di Raffaello Sanzio, i tre Caravaggio (che sono poi i capolavori imperdibili del percorso espositivo) e poi ancora ritratti psicologici di Lorenzo Lotto, una Sacra Conversazione di Giovanni Bellini e molto altro ancora. Il tutto esposto al di fuori di rigidi schemi cronologici o narrativa ma seguendo, pare, il gusto personale delle personalità che li collezionarono. Senza dimenticare il rubicondo Innocenzo X di Válzquez (a cui, opportunamente, è stata dedicata una sala privata), mi soffermo brevemente su di un'opera squisita: I vecchi avari (fig.2) di Quentin Massys. Il pittore è fiammingo, vissuto tra la seconda metà del Quattrocento e i primi decenni del secolo successivo. Tra i titoli delle sue opere troviamo Gli esattori o Il banchiere e sua moglie, quasi a suggerirci una specializzazione nel rappresentare i pionieri del capitalismo moderno. Massys è cantore di un'umanità diversa rispetto a quella raccontata dagli artisti coevi della penisola. Da lui i committenti non sono aristocratici o prelati in odore di santità ma ricchi borghesi. Nel dipinto in oggetto (I vecchi avari), però, non troviamo l'elegia di una personalità dominante, bensì l'espressione della corruzione di un mondo in cui il denaro è più importante dell'uomo. I protagonisti hanno fattezze spiacevoli e sguardi avidi, ma la loro bruttezza è tutta interiore: la bramosia del possesso di fredde monete metalliche li ha svuotati di spiritualità e di umanità. Un dipinto che è specchio di un'epoca buia la quale, azzardo, perdura ancora oggi. Forse le opere di Massys dovrebbero essere insegnate nei programmi di storia dell'arte fin dall'infanzia, per mostrare alle nuove menti dove conduce la sete incontrollata di ricchezza. "Il numero uno"Dopo l'immersione nella storia della famiglia Pamphilj e relativa parata di capolavori classici ci spostiamo verso la Fondazione Nicola del Roscio. Siamo sempre nel cuore di Roma, tra Piazza di Spagna e via del Tritone. Si tratta di uno spazio di arte contemporanea, istituito per valorizzare e raccontare in modo innovativo la creatività del presente e del futuro. Un elegante edificio degli anni Venti, in via Francesco Crispi 18, ospita un vasto spazio espositivo di 700 metri quadrati. Prima di questo weekend non la conoscevo, mea culpa! Aperta nel 2019, la Fondazione è al suo quinto progetto espositivo, sempre a cura di Pier Paolo Pancotto. Protagonista di questa incerta estate 2021 è l'artista veneto Nico Vascellari. Nato a Vittorio Veneto nel 1976, vive e lavora tra Roma e New York. Di lui si parla molto negli ultimi anni: performer, artista visivo, musicista con i suoi Ninos du Brasil . Nico è stato definito dalla dea della performance, Marina Abramović: "il numero uno". Il suo lavoro è puro dinamismo. Vascellari si muove instancabilmente tra diversi strumenti espressivi, mescolando linguaggi creativi che dal video lo portano al collage, l'installazione e la performance. Recentemente si è reso protagonista di un'esperienza unica, figlia del lockdown: il progetto IONOI. 20 performance in 20 venti giorni consecutivi in 20 regioni d'Italia. Quando musei, cinema e teatri erano chiusi, i Ninos du Brasil hanno prodotto e mostrato Arte nelle case di chi li ha accolti. Negli spazi della Fondazione del Roscio, Vascellari presenta qualcosa di diverso rispetto a ciò a cui ha abituato il suo pubblico. La frenesia si trasforma in quiete, il vitalismo in contemplazione. Roma gli dedica una prima antologica come vuole la tradizione. Il visitatore non partecipa ma osserva e passa da un'opera all'altra seguendo una logica che rassomiglia più a un museo che a un cantiere creativo. Vent'anni di attività artistica, dai primi lavori (lasciati ad uno stadio progettuale per mancanza di fondi) alle performance che gli hanno acceso i riflettori addosso. Grazie alla narrazione museale, quelle prime opere si tingono di romanticismo. Immaginiamo il giovane artista impegnato a progettarle, ben sapendo che non avrà i mezzi per costruirle. Oggi ci sono, completate tra il 2020 e il 2021, e qui "ripresentate" o più semplicemente "presentate" per la prima volta gli occhi del pubblico. All'ingresso un meccanismo automatizzato schiaccia metodicamente dei pupazzi gommosi facendo loro emettere un suono che risulta disturbante. Al centro della sala un monumentale parallelepipedo rosa si aziona al nostro passaggio, mettendo a rischio l'incolumità del visitatore distratto. E poi ancora una selezione di opere che flirtano con l'immaginario Pop mischiando brand commerciali che sfruttano e stravolgono il corpo degli animali e prodotti di consumo che appaiono in sovrabbondanti forme capaci di nausearci alla maniera di Oldenburg (opere quest'ultime in cui la materia prima è la cioccolata pasquale). Nico Vascellari non è un artista puramente concettuale, poiché lancia quasi sempre un forte messaggio socio-politico. La mostra è il ritratto di un artista impegnato che ambisce a ricavarsi un ruolo di assoluto protagonista del nostro secolo. Affrettatevi! L'esposizione è visitabile fino al 25 settembre 2021. "Gli umani non sono soli in questo pianeta"Chiudo il mio racconto odierno con l'ultima tappa del piacevole weekend capitolino. Come anticipato nell'introduzione, ci siamo trasferiti nel rione Testaccio, quartiere traboccante di murales realizzati da grandi artisti come Blu e Roa. Nel quartiere svetta trionfante l'agglomerato di edifici industriali che hanno ospitato un tempo il lugubre mattatoio della città e che oggi, in parte ristrutturati, accolgono il celebre MACRO.
Spazio interamente votato al contemporaneo, il MACRO sforna progetti di interesse internazionale e ospita spesso residenze di artisti provenienti da tutto il mondo. Recentemente ha accolto un progetto sperimentale di Luigi Presicce, di cui parlerò nel prossimo articolo del Blog di ARTIKA. Oggi mi soffermo invece sulla mostra fotografica che sarà visitabile fino al 22 agosto 2021: il World Press Photo. Il premio è giunto alla 64° edizione! Un vero e proprio polo di attrazione che ha visto coinvolti 4315 fotografi da 130 paesi, per un totale di 74.470 immagini presentate. Un lavoro sovraumano da parte della giuria che ha pazientemente selezionato le 141 foto finaliste, visibili alle pareti dell'ex macello. Politica, società, cambiamento climatico, pandemia e guerre. Praticamente tutti gli argomenti salienti dell'attualità sono stati sviluppati dai fotografi che hanno passato le selezioni. Nel complesso una mostra che suscita un vortice di emozioni. Dal profondo scoraggiamento per i mali che affliggono il nostro tempo, alle lacrime che scaturiscono per la profonda bellezza di gesti che svelano il vero senso dell'esistenza ai quattro angoli del pianeta. Le opere più drammatiche sono anche quelle su cui il nostro occhio si sofferma di più. Come sempre, la tragedia ci spinge a indugiare: tra un vago desiderio morboso di contemplare l'inaudito e la trascinante empatia che ci porta a solidarizzare con le sfortune altrui. Storie di detenuti trattenuti ingiustamente per ragioni politiche, l'esperienza di un uomo transgender nella fredda (per clima e chiusura al diverso) Russia, sciami di locuste che invadono il Kenya (in piena spirito apocalittico), gli occhi straziati di un maiale in un allevamento intensivo, le persone reali dietro al movimento Black Lives Matter e ancora gli angoscianti campi profughi ai margini dell'Occidente. C'è spazio anche per il Covid e le repressioni poliziesche nelle fragili democrazie sudamericane. Ma l'immagine su cui desidero soffermarmi è quella che vi riporto in foto (fig.4). Una coppia di piccioni selvatici ha fatto amicizia con la famiglia del fotografo, durante il lockdown in Olanda. Ollie e Dollie, li hanno chiamati; due presenze abituali in casa a ricordare che gli umani non sono soli in questo pianeta. Articolo a cura di Daniel Buso "I nuovi volti della scena dell'arte veneta"Il nostro precedente articolo [che potete recuperare a questo link: PARTE 4] era incentrato, necessariamente, sulla figura del grande Tiziano Vecellio. Il pittore cadorino, nel 1516, raccoglie l'eredità di Giovanni Bellini (appena deceduto) e si impone come protagonista indiscusso della scena artistica lagunare. La sua fama travalica presto i confini della Serenissima, diffondendosi in tutta l'Italia settentrionale, e poi ancora più in alto verso la corte di Carlo V Imperatore e subito dopo presso il figlio Filippo II Re di Spagna. La generazione dei Cima e dei Palma il Vecchio sta scomparendo, Giorgione è già tristemente morto, mentre Sebastiano del Piombo si è installato a Roma. Tiziano sembra non avere rivali e domina! Ciononostante i committenti a Venezia continuano ad essere voraci di opere d'arte e si crea necessariamente tanto spazio per i talenti emergenti di cui parliamo in questa PARTE 5 alla scoperta delle Gallerie dell'Accademia. I nuovi volti della scena dell'arte veneta sono Veronese, Tintoretto e Lorenzo Lotto. "La ricchezza e la potenza di Venezia provoca alla città terribili inimicizie"Prima di lasciarci trascinare dalla inebriante bellezza delle opere nelle Gallerie dell'Accademia, è opportuno un breve capitolo dedicato alla storia Serenissima nella prima metà del Cinquecento. Iniziamo dicendo che la ricchezza e la potenza di Venezia provoca alla città temibili inimicizie. Dopo aver ottenuto il controllo dell’importante isola di Cipro, grazie a Caterina Cornaro, nuovi scontri con gli Ottomani portano presto la Serenissima a perdere importanti basi in Oriente. In Europa, Francia e Spagna sono ormai due consolidati stati nazionali capaci di mutare gli equilibri del continente. Carlo VIII di Francia dilaga in Italia, mentre la Spagna nel 1504 ottiene il controllo del regno di Napoli. Venezia si muove con astuzia politica e ottiene importanti città come Faenza e Rimini, strappandole all’autorità papale. Sembra che la sorte arrida ai Veneziani ma in quegli stessi anni inizia a organizzarsi una formidabile coalizione contro di essa. Francia, Impero e Spagna si accordano e identificano lo stato veneto come merce di scambio. Nel 1509 i Francesi iniziano le ostilità sull’Adda, l’Impero dilaga in Veneto da nord e gli Spagnoli riprendono possesso delle colonie veneziane in Puglia. Giulio II (il Papa) si intromette e lancia la scomunica contro la città. Il 14 maggio 1509 è una triste giornata da ricordare per i Veneziani drammaticamente sconfitti ad Agnadello. La situazione appare ancora peggiore rispetto a quella vissuta con la guerra di Chioggia del Trecento. Molte città sottoposte al giogo veneziano si aprono subito ai nuovi dominatori. A salvare la situazione concorrono diverse circostanze. Innanzitutto il realismo e il pragmatismo dell’azione politico-diplomatica veneziana che punta a dividere il fronte dei nemici. Al Papa vengono restituite molte città sottratte, ma soprattutto viene convinto che i Francesi possono diventare un nemico peggiore dei Veneziano. Giulio II istituisce così la lega santissima (1511) alleandosi con la Spagna e Venezia in chiave anti-francese. Questi sono gli anni degli Asburgo che tra il 1516 e il 1519 realizzano l’immensa unificazione dei territori spagnoli e imperiali per vie ereditarie nelle mani di Carlo V. Venezia dal canto suo si muove instancabilmente alleandosi ora con la Francia, ora con Carlo V e riesce ad avere un ruolo chiave al congresso di Bologna che nel 1530 ridefinisce i confini della penisola e conferma lo “stato da terra” dei Veneziani. L’Italia avrà confini abbastanza stabili con la celebre pace di Cateau-Cambrèsis del 1559: che rende la Spagna vera dominatrice della penisola con aree di influenza in Lombardia, nel Regno di Napoli, in Sicilia e in Sardegna. Nella generale crisi delle libertà italiane, l’indipendenza dello stato veneto è stata salvata. A Venezia, a questo punto della storia, c’è la capacità di elaborare un'azzeccata presa di coscienza storica delle dimensioni limite entro le quali la Repubblica può continuare a vivere. Venezia diventa così stato libero e neutrale. Le parole d’ordine sono “raccoglimento” e “distacco”. Questa politica verrà portata avanti con successo per più di due secoli. "Anticipazione del ritratto moderno"Con questa breve premessa storica in mente torniamo ad attraversare le sale delle Gallerie dell'Accademia, con la consapevolezza di essere di fronte al risultato di una società che vede l'arte come uno strumento di promozione politica. L'immagine che Venezia trasmette al mondo è di un luogo raffinato, la cui potenza è tale soltanto nelle opere. Lorenzo Lotto è un raffinato interprete della pittura lagunare. Come sappiamo però, la competitività di Tiziano gli rende estremamente difficile ricavarsi una nicchia di mercato. Il suo stile, inoltre, risulta spesso incompreso per quel magico realismo di sentimenti e quella stesura cromatica morbida che non si adattano al linguaggio del pittore ufficiale della Serenissima. Il museo veneziano in cui ci troviamo ospita una sua pregevole tela, che ritrae un giovane gentiluomo in abito scuro [Fig.2], colto nell'attimo in cui pensieri malinconici lo distolgono dalla lettura. La luce proviene da destra e rischiara la bellissima natura morta sullo scrittoio. Il calamaio, il ramarro, la lettera col sigillo spezzato sono tutti oggetti carichi di significato simbolico. Alle sue spalle il corno e il liuto probabilmente alludono al rifiuto dei piaceri della gioventù in nome di una vita dedita allo studio. L'espressione trepidante del soggetto e le sue lunghe mani nervose sono gli elementi che contribuiscono alla profonda intensità della tela. L'acuta introspezione psicologica, di cui fa sfoggio l'artista, pongono l'opera come anticipazione del ritratto moderno. Lotto non dipinge imperatori e papi, ma personaggi della piccola nobiltà o borghesi in ascesa. Per lui ciò che conta non è l'ufficialità della posa o la trasmissione del ruolo politico. I suoi ritratti ricercano il dialogo tra la personalità della figura rappresentata e l'emotività di chi li osserva, allo scopo di costruire un confronto umano tra le due parti. Il ragazzo in esame ci guarda e con il movimento del corpo ci introduce nella sua attività, comunicandoci la sua interiorità a distanza di secoli. "L'autonomia del colore si unisce al disegno"Uno dei massimi rinnovatori del Rinascimento veneziano è Jacopo Robusti, detto il Tintoretto. Sulla base solida della tradizione di Giorgione e Tiziano, Tintoretto inserisce la cultura figurativa del Manierismo. L'autonomia del colore si unisce al disegno, in una armoniosa compenetrazione tra linguaggio veneto e cultura fiorentina. L'apice della sua fervida operosità si può ancora oggi ammirare nella Scuola Grande di San Rocco, per cui realizza il grande ciclo pittorico tra il 1564 e il 1587. Tutta Venezia continua a vivere del gesto e dell'impeto del furioso tentor ed ogni passeggiata a Venezia ci porta immancabilmente a scoprire almeno una chiesa in cui è contenuto un suo capolavoro. Le Gallerie dell'Accademia ospitano diversi suoi dipinti, appartenenti a periodi distinti della sua attività. Tra i più significativi vi è il Miracolo dello schiavo [Fig.3], opera che segna la sua maturazione alla data 1548. Il dipinto, assai discusso fin dal momento della sua esposizione nella Scuola Grande di San Marco, gli permette di incontrare i favori del grande pubblico. Già in questa fase precoce Tintoretto guarda a Michelangelo e ne rielabora con visione personale l'energia compositiva. Il suo linguaggio è provocatoriamente innovativo. In quest'opera tutto è teatrale: dal monumentale impianto scenografico all'abile regia con cui sono disposti i personaggi nelle loro elaborate movenze. L'opera rappresenta uno dei miracoli compiuti da San Marco dopo la morte. Il santo patrono di Venezia intercede presso gli umani con lo scopo di liberare uno schiavo dalla pesante tortura a cui era stato condannato da un signore di Provenza, rappresentato su un alto trono a destra. L'apparizione del santo, al centro, provoca lo spezzarsi degli strumenti del martirio generando scompiglio nei presenti. L'intenso passaggio tra zone di luce e zone d'ombra, che si viene a creare nel dipinto, garantisce la messa in scena di qualcosa di assolutamente inedito per i Veneziani della metà del Cinquecento. Allo stupore (e in alcuni casi all'indignazione) farà presto seguito un'ammirazione pressoché incondizionata che lo porterà ad essere protagonista di indimenticabili cicli pittori nella sua città. "Teatralità e ricchezza"Nella grande civiltà pittorica veneziana, Paolo Veronese occupa un posto di primissimo piano. Il suo stile è chiaramente distinguibile per la particolare armonia data dalle tinte limpide, brillanti e per la trasparenza delle atmosfere. I suoi mezzi espressivi e il suo modo di rappresentare le figure saranno grande fonte di ispirazione per la pittura del Settecento. Il capolavoro assoluto che vi propongo in questa sede è il gigantesco Convito in casa di Levi [Fig.4], capace di svilupparsi lungo una superficie orizzontale di tredici metri. Il titolo è fuorviante, esso infatti rappresenta l'Ultima cena. La storia ci racconta come Veronese sia stato costretto a cambiar nome al dipinto a fronte di una contestazione da parte del pericoloso Tribunale dell'Inquisizione. Il motivo della censura è legato alla presenza di alcuni particolari ritenuti immorali: cani, pappagalli, uomini ebbri e nani. L'uso del chiaroscuro è ridotto al minimo. La composizione è interamente realizzata con colori chiari e luminosi. Come Tintoretto, anche Veronese si dimostra sensibile alle novità del Manierismo e si sofferma con cura nel modellare i corpi e gli abiti, rendendo così i personaggi perfetti e monumentali. L'ambientazione è signorile. Veronese concepisce la scena in un palazzo di stile classico cinquecentesco con architetture ricche e sontuose. Tutti i personaggi indossano abiti contemporanei al pittore, fatta eccezione per Gesù abbigliato con la consueta veste coperta da un mantello. Teatralità e ricchezza: con queste due parole si può riassumere l'impatto di Veronese. Le figure compiono movimenti frizzanti estremamente credibili nei loro abiti sfarzosi. La sontuosità della scenografia ci colloca virtualmente dentro ad una ricca abitazione veneziana riservando all'episodio sacro una posizione simbolicamente marginale. -- Con Veronese chiudiamo questa quinta parte del racconto delle Gallerie dell'Accademia. Vista la brevità del format, ai tre grandi maestri è stata riservata una "drammaticamente" piccola finestra. Ci rifaremo nei nuovi articoli in cui mi soffermerò in modo più analitico su ogni singolo artista. Il mese di aprile sarà dedicato ad ARTIKA+ con i tre webinar dedicati alla "Primavera di Venezia. Dal Gotico al Rinascimento" (13-20-27 aprile, ore 21:00). Vi do quindi appuntamento a maggio con i nuovi articoli del Blog di ARTIKA! Articolo a cura di Daniel Buso
Anno 1510, muore Giorgione. |
Daniel BusoStorico dell'arte e direttore artistico di ARTIKA Archivi
Aprile 2023
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